Nuovo colpo del questionario musicale di Proust di Money, it’s a gas che, stavolta, realizza la prima intervista ufficiale a Pico Cibelli, da dicembre scorso nuovo presidente di Warner Music Italy. Entrato in Universal Music Italia nel 2000, Cibelli ha lavorato come A&R Executive per oltre dieci anni, per poi passare a Sony Music Italy, dove ha lavorato per oltre un decennio sempre nel settore A&R, sviluppando gli artisti nazionali di prima linea dell’azienda. Com’è il nuovo corso in Warner? «Una sfida bellissima», risponde Cibelli. «Questa scelta, per me, ha significato uscire dalla comfort zone. Warner Music Italy ha un catalogo importantissimo con enormi margini di crescita sul piano della valorizzazione. Le possibili strade nuove da percorrere sono innumerevoli».
Che ascoltatore di musica sei?
Uno che, per motivi professionali, ha da tempo messo da parte i gusti personali. Da quando ho cominciato a lavorare come A&R la musica «per piacere» ha sempre meno spazio. Ne ascolto tantissima per essere aggiornato. Pensa che nei weekend mi sento le classifiche degli altri paesi per capire cosa funziona lì e cosa quelle hit hanno da insegnarci, lato Italia. La musica per piacere, oggi, è la mia decima scelta… Si può dire che d’estate, quando non lavoro, ascolto quello che mi piace.
Qual è il disco che ti ha cambiato la vita?
Senza dubbio «Off the Wall» di Michael Jackson. Sono un fanatico della black music che, a un certo punto del suo percorso, s’innamora dell’elettronica. «Homework» fu infatti un altro colpo di fulmine. Facevo il dj e i Daft Punk diventarono un modello a cui ispirarsi. Poi, se vogliamo parlare di ascolti inconsapevoli, i miei genitori quando ero in culla mi mettevano «The Dark Side of the Moon» in cuffia per farmi addormentare. Chi l’avrebbe mai detto che mi sarei ritrovato a lavorare in Warner, casa discografica dei Pink Floyd, nell’anno del cinquantennale di quel capolavoro!
Qual è il libro che sta sul tuo comodino?
Mi hanno appena regalato «I fratelli Warner», storia di come è nata la Warner Bros, ma non l’ho ancora cominciato. Ho invece appena finito «The Metaverse» di Matthew Ball che racconta quello che potrebbe accadere grazie al metaverso, un libro che consiglio. Quello è un mondo destinato a parlare sempre di più col nostro mondo.
Se potessi tornare a un concerto che per te è stato importante, quale sceglieresti?
Senza dubbio Vasco Rossi, la data del tour di «Liberi liberi» all’Arena di Milano, nel 1989. I miei zii che gestivano il negozio Pico Disco facevano prevendita. Avevo tipo 12 anni e quel concerto mi folgorò. Dissi: «Da grande voglio fare qualcosa che ha a che fare con tutto questo». Poi, sempre se parliamo di ascolti inconsapevoli, i miei mi portarono a vedere Bob Marley a San Siro quando avevo 3 anni.
Come sei finito a fare quel che fai?
Sono cresciuto in una famiglia che viveva di musica. Mio zio aprì l’etichetta Dig-it, un altro mio zio, come dicevo prima, aveva un negozio di dischi. Io facevo il dj. Quindi…
In un’altra vita che lavoro avresti fatto?
Il pilota. Sembrerà strano, ma sono perito aeronautico e ho un brevetto di allievo pilota: posso portarti a fare un giro intorno all’aeroporto, ma non voli lunghi. Mi piace volare, ma il brevetto commerciale non l’ho mai preso: confesso che l’idea di pilotare un velivolo molto grande mi spaventa un po’. Però posso dire che, per come la vedo io, la musica ha a che fare con l’idea di volare.
Qual è il progetto a cui hai lavorato di cui vai più orgoglioso?
Ce ne sono moltissimi ma, se ne devo sceglierne uno solo, dico «Tradimento». Fu il primo album di Fabri Fibra per Universal Music e significò l’inizio di qualcosa perché, prima di quel disco, il rap in Italia non era roba mainstream.
Qual è, invece, l’errore che non ripeteresti?
Gli errori aiutano a crescere: servono tutti.
Qual è il tuo rimpianto più grande?
La prossima hit non di Warner. Sono un vero e proprio malato di hit: quando ne sento una che non esce dalla squadra per cui sto lavorando, soffro tantissimo.
Puoi riportare in vita un grande della musica di ieri per lavorarci. Chi scegli?
Jacko prima di tutti gli altri. Però mi intrigherebbero anche Amy Winehouse e Kurt Cobain.
Talento, lavoro di team su un progetto, fortuna: cosa conta di più per sfondare nella musica?
Tutto insieme. Il talento è al centro: siamo umili servitori di un dono di Dio che riceve l’artista. Il team è fondamentale. Alla fortuna ci credo tantissimo, ma da sola non basta.
Definisci gli artisti.
Chi esercita la propria professione con eccezionale maestria.
Definisci i discografici.
Umili servitori di chi esercita la professione con eccezionale maestria fondamentali nel meccanismo che porta al successo.
Definisci i promoter.
Come sopra.
Come ti immagini il futuro del lavoro che fai?
Sempre legato al grande talento degli artisti. Il modo di fruire la musica cambierà mille altre volte, ma il talento resterà il talento.
Al questionario musicale di Proust hanno risposto anche:
Marco Alboni
Mimmo D’Alessandro
Claudio Ferrante
Stefano Lionetti
Alessandro Massara
Enzo Mazza
Andrea Rosi
Federica Tremolada
Claudio Trotta
Franco Zanetti