A Marcel Proust è attribuito uno dei più celebri questionari di intrattenimento sociale della storia. Qui a Money, it’s a gas! lo abbiamo riarrangiato a uso dei protagonisti del mondo della musica e del music business. Oggi tocca ad Andrea Rosi che dal 2010 ricopre la carica di presidente di Sony Music Italia. Bresciano, classe 1957, ha una pluriennale esperienza nel settore dell’industria musicale iniziata nella prima metà degli anni Ottanta in Cgd e Warner Music nell’ambito della promozione e del marketing, e proseguita in Polygram dove ha lavorato come managing director. Alla fine degli anni Novanta, ha partecipato alla nascita di Vitaminic. Da 2003 in Bmg, a seguito del merger con Sony diventa membro del digital board europeo, con il mandato di sviluppare il business digitale nell’area del mediterraneo.
Che ascoltatore di musica sei?
Curioso. Per il lavoro che faccio mi tocca sentire di tutto, ma quando sono in vacanza torno alla musica di quando ero ragazzo che è quella degli anni Settanta.
Qual è il disco che ti ha cambiato la vita?
Di sicuro «Abbey Road», il primo che ho comprato, a 12 anni. Poi direi «Selling England by the Pound», «Led Zeppelin IV», «Close to the Edge» e «The Dark Side of the Moon».
Qual è il libro che sta sul tuo comodino?
«Il cuore è un organo» di Francesca Michielin, bel libro. Conosci meglio i tuoi artisti, quando leggi i loro libri. Principio che però vale soltanto con gli artisti bravi a scrivere libri.
Se potessi tornare a un concerto che per te è stato importante, quale sceglieresti?
Prince al Palatrussardi di Milano nel 1987, per il tour di «Sign o’ Times».
Come sei finito a fare quel che fai?
Negli anni Ottanta non c’era una scuola di formazione. Si partiva dalla passione e io ero un grande appassionato. A Brescia feci amicizia con Franco Zanetti che, all’epoca, lavorava come ufficio stampa. Cominciai con lui. Poi, in quasi quarant’anni, sono successe diverse cose.
In un’altra vita che lavoro avresti fatto?
Avrei sicuramente aperto un negozio di dischi. Adesso avrei avuto tanti problemi, ma sarei stato felice. Di sicuro non mi sarei mai visto come impiegato.
Qual è il progetto a cui hai lavorato di cui vai più orgoglioso?
Non mi piacciono quelli che si prendono il merito del successo dei progetti a cui hanno lavorato perché, in discografia, il successo non è mai merito di una sola persona. Posso dire che ricordo con affetto quando negli anni Ottanta misi sotto contratto i Litfiba.
Qual è, invece, l’errore che non ripeteresti?
Sempre nella prima fase della mia carriera avrei dovuto essere più diplomatico. Non sono mai stato il re delle pubbliche relazioni, ma all’inizio non lo ero particolarmente.
Qual è il tuo rimpianto più grande?
Non aver visto i Pink Floyd suonare dal vivo «Atom Heart Mother». E non aver visto i Genesis con Peter Gabriel. Ho parzialmente recuperato, su quest’ultimo punto, vedendo svariate volte suonare The Musical Box.
Puoi riportare in vita un grande della musica di ieri per lavorarci. Chi scegli?
Lennon o Bowie. Anzi: Lennon e Bowie. In duo, come in «Fame».
Talento, lavoro di team su un progetto, fortuna: cosa conta di più per sfondare nella musica?
Il mix perfetto di tutti e tre i fattori. Senza, non si arriva da nessuna parte.
Definisci gli artisti.
Sempre in cerca di conferme su ciò che fanno. Un po’ come i politici.
Definisci discografici.
Un po’ come gli artisti.
Definisci i promoter.
Professionisti abituati a rischiare. Fondamentali per tutto il mondo che gira intorno alla musica.
Come ti immagini il futuro del lavoro che fai?
Certe cose non cambieranno: penso al lavoro sul prodotto discografico. Altre non smetteranno mai di cambiare: penso alla fruizione del prodotto discografico.
Al questionario (musicale) di Proust hanno risposto anche:
Marco Alboni
Mimmo D’Alessandro
Claudio Ferrante
Alessandro Massara
Enzo Mazza
Federica Tremolada
Franco Zanetti