Si parla molto di Enzo Jannacci ultimamente e va bene così, perché non se ne parlerà mai abbastanza. Sarà perché se n’è andato poco più di dieci anni fa, quasi undici per la precisione, sarà perché aveva capito i limiti della nostra specie e non poteva fare a meno di raccontarcene le contraddizioni, perché la vita continua a essere una indicibile commedia dell’assurdo e quello che non puoi dire lo puoi cantare ed era esattamente quello che faceva Enzo Jannacci.
Tra i numerosi omaggi al cantautore di «Quelli che», abbiamo finalmente visto (in colpevole ritardo) «Ci vuole orecchio», lo spettacolo di Elio che canta e recita Jannacci, in un teatro del profondo Hinterland brianzolo che sarebbe piaciuto a Enzo, e l’abbiamo trovato meravigliosamente centrato. No, non è un concerto, piuttosto è un’espressione molto contemporanea di quello che una volta si chiamava teatro canzone: un recital che alterna 16 brani del songbook jannacciano, alcuni molto noti e altri meno, a testi di Beppe Viola, Cesare Zavattini, Franco Loi, Michele Serra, Umberto Eco, Dario Fo, Carlo Emilio Gadda oltre che dello stesso frontman delle Storie Tese.
Si parte con «Saltimbanchi», un manifesto della poetica del Maestro, si indugia su «Ci vuole orecchio» e «Silvano», inevitabilmente tra i pezzi più attesi dal pubblico, si rievoca la Milano che fu di «El portava i scarp’ del tennis». Le gesta noir tragicomiche de «L’Armando» offrono ai cinque musicisti che seguono Elio (Alberto Tafuri al piano, Sophia Tomelleri al sax, Giulio Tullio al trombone più la sezione ritmica composta dal bassista Pietro Martinelli e dal batterista Martino Malacrida) vetrina di virtuosismi tra pause e sincopi, perché gli arrangiamenti di Paolo Silvestri sono roba per palati fini. Sul palco ci si veste strani, si suona bene e ci si presta a far da spalla alle gag del frontman.
Il monologo metafisico sul traffico che prova a suicidarsi ma capisce di essere immortale, già sulle pagine delle «Fiabe centimetropolitane» di Elio, fa da introduzione perfetta ad «Aveva un taxi nero» ma è sulle gesta del «Banksy di Lambrate» che il pubblico esplode: l’apparizione su un muro del quartiere della misteriosa scritta «Margherita, perché?» (che non è rappresentazione di un «estremo ripensamento in pizzeria») seguita dalla risposta «Lo sai perché» ribalta il ruolo della vittima in carnefice, fino a un nuovo graffito passionale («Non vivo senza te») destinato a essere soppiantata da un perentorio «Forza Milan». Elio sa di cosa parla, quanto è vero che ha ereditato come nessun altro l’immaginario di Jannacci. E ha il destino dalla sua parte, quanto è vero che suo padre da ragazzo andava a scuola con il Maestro. Insomma: si ride tanto e si pensa pure perché Enzo Jannacci è vivo e canta e recita a teatro con Elio. Un consiglio spassionato: andateci.