Attilio Geroni è un maestro di giornalismo e anche un appassionato di musica di rara competenza (non sempre le due cose coincidono, soprattutto tra i giornalisti che si occupano a tempo pieno di musica). Ha raccontato dal «fronte» la caduta dell’impero sovietico ed è stato a lungo a capo della redazione esteri del Sole 24 Ore. Ama la musica degli anni Settanta e ha un rapporto speciale con l’arte di Peter Gabriel (come dargli torto). Domenica 21 maggio è stato a vedere l’ex frontman dei Genesis al Mediolanum Forum di Assago per la seconda tappa del tour italiano prodotto da Live Nation, dopo l’Arena di Verona. Siamo felici e onorati di ospitare questa sua recensione al concerto.
È generazionale. Peter Gabriel è per me un fratellone maggiore. Ero ragazzo, lui era già grande e faceva cose che sognavo di fare. Il pipistrello di Watcher Of The Skies ha perso le ali, ma non l’aura di magia che ha sempre avvolto la sua musica, la sua mimica e il suo saper stare sul palco.
Peter Gabriel (nella foto Ansa) è un artista evocativo perché non è mai solo sé stesso, è sempre stato una moltitudine di cose, di impulsi. E anche se non si traveste più come in Selling England By The Pound o gesticola come in Shock The Monkey, è in grado di creare un suo personalissimo universo comunicativo quando canta e suona: su disco e dal vivo.
In questo senso, il concerto dell’altra sera al Forum di Assago ha regalato al pubblico un Peter Gabriel in stato di grazia. Sono stato incerto fino all’ultimo se andare o meno a sentirlo. Il prezzo molto alto del biglietto e la prima anticipazione di I/O, Panopticom, avevano raffreddato l’entusiasmo di chi, come me, aspetta da 21 anni l’uscita del suo album di inediti.
Poi è arrivata un’altra anticipazione di I/O, Four Kinds Of Horses, cupa e splendida, ho guardato alcuni video sui social per sapere come era andata la prima mondiale di questo tour, a Cracovia, e mi sono convinto. Non potevo perdermelo, anche perché il suo ultimo concerto al quale avevo assistito risaliva esattamente a 30 anni fa, esattamente nello stesso posto, Forum di Assago.
Prima e meglio di me, il maestro Paolo Fresu e Carlo Massarini hanno scritto parole meravigliose, e pienamente condivisibili, sull’esibizione di Peter Gabriel. Le mie sono solo le impressioni e le emozioni di un fan che l’ha sempre seguito con passione e pazienza. Pazienza perché il Nostro, come titolò anni fa il Financial Times intervistandolo, è «The Master of distraction», uno che si fa aspettare perché impegnato ad assecondare le sollecitazioni affini o tangenziali alla sua musica. In quell’intervista, parte della rubrica Lunch with the FT, raccontò che stava studiando l’interazione degli scimpanzé con la musica.
Una testimonianza di curiosità insaziabile e voglia di sperimentare che ho ritrovato in pieno al concerto del Forum.
La scelta di privilegiare gli inediti sui vecchi successi è stata vincente. Così il passato di Peter Gabriel (e il nostro) non è diventato nostalgia, ma si è fuso alla perfezione: con il presente, e con il futuro prossimo, perché ancora non sappiamo quando uscirà I/O (quest’anno?).
Il suono era pulito, gli strumenti ben identificabili, la sua voce sempre bella, con quella granulosità che ne accresce il magnetismo compensando l’attenuazione fisiologica dei toni alti. Poi il gruppo, sintesi perfetta di vecchia e nuova guardia. Gli imprescindibili Tony Levin al basso, David Rhodes alle chitarre e Manu Katché alla batteria. E i giovani favolosi come Josh Shpak ai fiati, il funkeggiante Don McLean alle tastiere, Richard Evans alla chitarra e flauto, Anna Moore al violino e Ayanna Witter-Jones (violoncello e una voce da brividi, come dimostrerà duettando con Peter in Don’t Give Up).
Si comincia con le origini della musica, intesa come forma primitiva di comunicazione tra esseri umani, seduti attorno al fuoco. E proprio seduti troviamo Peter & Co. a eseguire in versione acustica Washing of the Water e Growing Up, che perde l’incedere pseudo disco dell’originale per trasformarsi in una folksong dagli echi tribali. Una dimensione, quella acustica, che riaffiorerà più volte nel concerto, grazie alla presenza quasi costante di fiati e archi. È come se Peter avesse fuso le sue esperienze soliste di maggior successo (So e US) con l’interludio sinfonico di cover, controcover e autocover di New Blood e You Scratch My Back.
Ribadisco che la migliore, tra gli inediti, è Four Kinds Of Horses, mestamente apocalittica e con il chiaro marchio di fabbrica del crescendo gabrieliano. Ma non è l’unica. Anche I/O non è male, quasi un inno, mentre molto toccanti sono Love Can Heal e This Is Home, quest’ultima accompagnata da immagini di spazi domestici – giardini, librerie – dove il privato si difende dalla complessità dell’universo che occupa.
Intimismo e universalismo si alternano in maniera fluida e composta perché la curiosità di Peter lo porta a esplorare i limiti e benefici dell’intelligenza artificiale, dell’interconnessione e i rischi del potenziale autodistruttivo dell’uomo nei confronti dell’ambiente.
Le immagini sono affidate a una corona di pannelli verticali e al cerchio che sovrasta il palco e i musicisti: verticale, inclinato, quasi orizzontale, vortice cosmico in Panopticom. Per chi se lo ricorda, c’è qualche rimando alla visionarietà di The Lamb Lies Down On Broadway e Peter non può non citare (e ringraziare) l’autore di questa componente irrinunciabile dei suoi concerti, il visual artist Anthony Micaleff.
E il pubblico? È un pubblico adorante, che alza le braccia roteando i polsi al crescendo di In Your Eyes, balla al ritmo di Sledgehammer e alza il pugno all’avanzare della batteria tribale di Biko. È anche un pubblico attento e concentrato, che ascolta in religioso silenzio (siamo adoratori, no?) gli inediti, che hanno un suono nuovo e stratificato come solo Peter poteva concepire: elettronica, funky, folk, r&b, echi prog, ballate, etnica. E dire che auspicavo, per il suo ultimo album, qualcosa di semplice, molto basic, con una strumentazione ridotta all’osso per esaltare la voce che con l’età diventa più calda e corposa. Ingenuo.
Peter Gabriel non potrà mai concepire le cose semplici perché è lui stesso ad essere complessità. L’importante è metterla in scena con eleganza e coerenza, questa complessità. E lo spettacolo di Milano, come prima di Verona, Cracovia e dopo di Parigi e altre tappe, dimostra che ci è riuscito in maniera impeccabile. Più di un recensore ha parlato di concerto perfetto, io ho avuto la conferma che dal vivo, come lui, nessuno mai. In più, ho lasciato il Forum di Assago con la netta impressione che I/O, quando uscirà, sarà un bel disco e più che andarmi a riascoltare l’inno di gioventù, Solsbury Hill, aspetterò con la solita pazienza che si deve a Peter il prossimo plenilunio. La magia continua.
Attilio Geroni