Joshua Lee Turner: «Mi conoscete per le cover su YouTube ma ho cantato a San Pietro»

Quando vi dicono che oggi i ragazzi non capiscono più niente di musica, che era meglio ai tempi nostri e, meglio ancora, ai tempi dei tempi, rispondete con sole sette parole: «Ma tu lo conosci Joshua Lee Turner?» No, perché forse, tra i ragazzi di oggi, c’è chi ha capito la musica dei tempi nostri e quella dei tempi dei tempi meglio di tanti che, ai tempi, c’erano. Formidabile polistrumentista e meraviglioso interprete del repertorio anni Sessanta e Settanta, Joshua Lee Turner è nato 30 anni fa in Indiana, stato americano che i più conosceranno per la serie Netflix «Stranger Things».

È esploso quando aveva 15 anni grazie a una cover di «Sultans of Swing» caricata su YouTube, roba da 13 milioni di views. Nel 2014 sempre una sua memorabile cover («Graceland») gli vale un’ospitata al popolare talk show «Good Morning America». Oggi è una webstar da 670mila follower su YouTube, dove ha un canale in cui continua a fare cover, ma propone anche musica sua e progetti originali come The Other Favorites e The Bygones. Vive a Brooklyn con la moglie Kelly, spesso sua partner musicale e protagonista, con lui, del road tour degli Stati Uniti A Musical Travelogue.

Grazie a YouTube ha raggiunto la popolarità internazionale: fa sold out ovunque, sulle due sponde dell’Atlantico. In Italia non si è mai esibito. O meglio: non come siamo abituati a vederlo, dal momento che ai tempi del liceo venne a Roma con il coro nel quale cantava e… si esibì alla Basilica di San Pietro! Quella che segue è la sua prima intervista italiana. Chissà che qualche promoter di casa nostra organizzi presto un suo tour qui da noi. Per chi non l’avesse capito: siamo in missione per conto di Dio…

Josh, come ti sei avvicinato alla musica?
Vengo da una famiglia di musicisti. I miei nonni da parte di madre erano musicisti e mio padre suonava la chitarra e cantava da ragazzo. Ho iniziato a cantare con lui quando ero molto piccolo e a nove anni i miei genitori mi hanno iscritto a lezioni di pianoforte e a un coro maschile. Ho studiato pianoforte per cinque anni prima di prendere in mano la chitarra che per qualche motivo mi è piaciuta di più. Ho preso lezioni per tutto il liceo e poi ho studiato chitarra classica all’università.

Sei celebre per le tue doti di polistrumentista. Come sei arrivato a suonare tutti gli strumenti?
Ho abbandonato il pianoforte appena ho iniziato a suonare la chitarra e ho cominciato col banjo più o meno sei mesi dopo. Avevo 13 anni. So suonare altri strumenti, ma principalmente questi due.

Hai fatto cover di quasi tutti i grandi della musica: quali sono i tuoi artisti preferiti?
Tutti quelli di cui ho fatto cover sul mio canale. Beatles, David Bowie, Pink Floyd, Bach, John Dowland, Davey Graham, Leo Kottke, John Fahey, Oscar Aleman, D’Angelo, Fleet Foxes, Vampire Weekend… ne dovrei citare troppi.

Domanda difficile: dal tuo punto di vista, qual è la tua cover meglio riuscita tra tutte?
Direi una tra «Oh, Lori» e forse «See Emily Play» che ho fatto diversi anni fa. Mi piacciono per motivi diversi. «Oh Lori» rappresenta la mia collaborazione preferita: coinvolge numerosi altri musicisti e mia moglie Kelly che filma tutti i miei video e lì ha fatto un lavoro assolutamente straordinario. «See Emily Play» risale all’epoca in cui facevo tutto da solo e lì credo di aver evocato particolarmente bene gli anni Sessanta.

Quale cover, invece, tutti vorrebbero che tu interpretassi ma non interpreterai mai?
«Take Me Home, Country Roads» di John Denver. È una bella canzone, ma l’ho vista eseguita un centinaio di volte di troppo in stile coro di ubriachi per poterla coverizzare.

I tuoi riferimenti ruotano soprattutto attorno alla grande musica degli anni Sessanta e Settanta. Tu sei nato negli anni Novanta: non credi che chi è arrivato dopo, rispetto a quei due magici decenni, abbia capito meglio ancora la musica che è uscita allora?
Penso che l’apprezzamento per la musica di queste epoche non sia mai tramontato, il che è interessante. La musica degli anni Cinquanta ha perso popolarità. La passione per la musica degli anni Ottanta è calata per un po’ di tempo, poi è tornata. Gli anni Sessanta e Settanta sono rimasti lì.

Simon Reynolds ha teorizzato la retromania: la musica degli anni Sessanta e Settanta è stata così grande che continuiamo a esserne ossessionati. Ti senti in un certo senso figlio della retromania?
Sì e no. Credo che si prediliga la musica a cui si è esposti durante l’adolescenza, un’idea confermata da questa tesi. I miei genitori erano adolescenti negli anni Settanta e hanno sviluppato una forte affinità con quella musica. Quando ero adolescente, negli anni Duemila, la ribellione giovanile non era più una cosa così importante. E allora, invece di ribellarmi alla loro musica, io, e come me molti miei coetanei, ho ascoltato la musica dei miei genitori da adolescente e ho formato un nuovo legame, a una sola generazione di distanza. Sono quindi il prodotto della preferenza dei miei genitori per la musica della loro adolescenza. Non credo che la musica degli anni Sessanta e Settanta sia intrinsecamente migliore di quella di qualsiasi altra epoca. Ma, poiché anch’io sono cresciuto con quella, la preferirò sempre.

Avresti preferito viverli in prima persona gli anni Sessanta e Settanta?
Assolutamente no. Non c’è mai stato un momento migliore di questo per amare la musica del passato. Un ragazzo cresciuto negli anni Sessanta non avrebbe potuto sognarsi la quantità di musica a cui abbiamo accesso oggi. Inoltre, sono in grado di suonare uno strano campionario di repertori di epoche diverse e di guadagnarmi da vivere senza un’etichetta discografica, il che è fantastico. Ovviamente neanche questo sarebbe stato possibile. Inoltre, ora abbiamo la medicina moderna, al contrario avrei avuto ottime probabilità di morire in Vietnam.

Ti rifaccio la domanda in maniera diversa. Sei esploso grazie al web. Lo baratteresti con la golden age della discografia?
Rispondo ancora una volta no. Nonostante le numerose sfide che hanno a che fare con l’attività di musicista oggi (i servizi di streaming non pagano, siamo alla mercé di algoritmi in continua evoluzione, dobbiamo cercare di stare al passo con la piattaforma di social media più in voga), avere un accesso – relativamente – diretto agli ascoltatori è un’enorme risorsa per i musicisti. Personalmente amo anche il video come aspetto della musica. Penso che dia ai miei fan un maggiore senso di connessione potendomi vedere suonare.

 Con quale grande della musica di ieri ti sarebbe piaciuto collaborare?
Oh, cavolo, ce ne sono così tanti. Mi sarebbe piaciuto lavorare con la band originale di Buena Vista Social Club, con Caterina Valente, Chet Atkins, Art Blakey, Gordon Jenkins… e la lista continua.

Con quale artista della musica di oggi, invece, ti piacerebbe collaborare?
Sono molto fortunato a vivere a New York e a poter collaborare con molte persone. Detto questo, mi piacerebbe lavorare un giorno con Gillian Welch e Dave Rawlings, e sarebbe fantastico lavorare con Kendrick Lamar, Quincy Jones o Anderson Paak.

 Grazie alle tue cover, sei arrivato a fare tour in tutto il mondo. In scaletta ci sono pezzi tuoi ma anche alcune delle cover che ti hanno reso famoso. Secondo te, cosa preferisce ascoltare il tuo pubblico?
L’ho chiesto direttamente ai fan e posso dire che la risposta varia da persona a persona. Credo che la maggior parte del pubblico venga per le cover, ma molti lasciano il concerto avendo apprezzato di più la musica originale, perché per loro è una piacevole sorpresa. Ma ci sono anche persone che mi scoprono attraverso Spotify piuttosto che su YouTube e sono sorprese che io suoni così tante cover, perché vengono solo per la musica originale. In un certo senso, credo che tutti noi vogliamo ascoltare cose che ci sono già familiari. Ma gli spettacoli dal vivo sono un modo unico e potente per far conoscere qualcosa alla gente per la prima volta, in modo che diventi loro familiare e vogliano ascoltarla ancora. È più facile entrare in contatto emotivo con musica nuova quando la si ascolta dal vivo.

Parliamo dei tuoi progetti discografici originali, mettendoci dentro anche The Other Favorites e The Bygones. Ce li descrivi uno per uno?
The Other Favorites è il progetto di duo folk di lunga data (circa 15 anni) tra me e Carson McKee. Ci siamo conosciuti al talent show della terza media e suoniamo insieme da quando avevamo 14 anni. Siamo stati paragonati agli Everly Brothers e ai Milk Carton Kids e abbiamo un’armonia vocale molto intensa con composizioni influenzate dal bluegrass. Siamo molto amici, ma al momento siamo in pausa da concerti e registrazioni.
The Bygones è un nuovo progetto tra me e la cantante e autrice di Nashville Allison Young. Abbiamo anche molte armonie vocali e un duo di chitarre, ma il nostro sound è più influenzato dal jazz e speriamo di poter registrare e andare in tour con un batterista e un bassista, non solo come duo. Allison scrive gran parte delle canzoni e io mi occupo dell’arrangiamento e della produzione. Pubblicheremo nuova musica e, si spera, andremo in tournée negli Stati Uniti per la prima volta nel corso dell’anno.
Registro e mi esibisco anche da solo come Joshua Lee Turner (per evitare confusione con Josh Turner, il cantante country). Ho pubblicato due album di musica originale e spero di pubblicare presto un album di chitarra solista. Il mio lavoro da solista viene spesso paragonato a James Taylor e Paul Simon. Non cerco assolutamente di assomigliare a loro, ma credo che le nostre influenze ci portino sempre a qualcosa.

Hai mai avuto contatti con i tuoi follower italiani?
Ho letto molti italiani nella mia sezione commenti: sono molto gentili e perennemente delusi dal fatto che io non sia venuto a suonare in Italia!

A proposito: sei mai stato in Italia? Ti piacerebbe venirci a suonare?
Ho visitato l’Italia ai tempi del liceo, quando cantavo col coro. Facemmo visite turistiche e ci esibimmo in alcune chiese, anche a Roma, a San Pietro, e fu straordinario. Non ho visitato l’Italia da adulto. Mi piacerebbe molto venirci a suonare, ma gli agenti americani con cui ho parlato hanno trovato molto difficile organizzare spettacoli lì da voi per tutta una serie di motivi.

Ultima domanda: come descriveresti Joshua Lee Turner a un promoter italiano che potrebbe essere interessato a organizzare un tuo tour qui da noi?
Beh, in genere ai promoter piace sentire i numeri, quindi: sono un polistrumentista e cantautore con quasi 700mila iscritti su YouTube, ho fatto soldout in tutta l’Europa settentrionale e occidentale. Con The Other Favorites ho fatto il tutto esaurito in 400-600 sale in Germania, Paesi Bassi, Belgio, Austria, Regno Unito, Irlanda e Francia. In molti di questi spettacoli ho incontrato fan che hanno volato dall’Italia per assistere allo spettacolo, il che testimonia la passione dei miei fan italiani, cui sono molto grato. Sul mio canale canto in numerose lingue. L’italiano… non ancora, ecco, ma possiamo dire che ho un forte appeal internazionale.