Dottori: «Io, cantautore, vi spiego perché il prossimo mio album sarà solo fisico»

Ricordate gli Amor Fou? Band indie milanese attiva tra il 2006 e il 2012 molto stimata da critica e addetti ai lavori che pubblicò anche per Emi e Universal. Il chitarrista, Giuliano Dottori, oggi è un cantautore che si accinge a pubblicare il suo quinto album solista, «La vita nel frattempo». Piccolo particolare: il disco uscirà soltanto in formato fisico (come ha fatto Francesco Guccini con «Canzoni da intorto») e su Bandcamp. Le piattaforme di streaming leader di mercato come Spotify avranno soltanto i singoli, come succedeva una volta con le radio. Nell’articolo qui sotto, scritto per Money, it’s a gas!, Dottori ci spiega perché.

 

Più volte ho cercato di capire questo nostro nuovo mondo della musica. L’ho guardato da varie angolazioni, da quella del musicista, e da quella del produttore, e poi da quella del discografico e dell’editore. E ogni volta sono giunto alla stessa conclusione: il sistema non sta in piedi. O meglio, sta perfettamente in piedi, ma a scapito di quelli che dovrebbero contare di più, ovvero gli artisti. In un certo senso il mondo della musica riflette alla perfezione il mondo in generale, dove i ricchi sono sempre più ricchi, i poveri fanno fatica ad arrivare a fine mese e la classe media sta lentamente, ma inesorabilmente scomparendo.
Oggi se imbrocchi un singolo puoi fare ancora una bella montagna di soldi. Certo, meno imponente dei tempi d’oro, ma comunque alta abbastanza per ripagarti anni di magra. Ma se sei un normalissimo e onesto musicista ti ritrovi davanti a un muro invalicabile: produrre un master di buona qualità costa qualche migliaio di euro, a cui devi aggiungere i costi delle eventuali stampe (vinili, cd, merch in generale), costi per promuovere il disco e per allestire un live che sia degno. Vi assicuro che per fare le cose perbene i soldi servono e non sono pochi.
Come artista nasco nel giro dell’indie anni Zero, quello dei Vasco Brondi, Dente, Brunori, Dimartino e Colapesce, per citare solo quelli che sono riusciti a sopravvivere e in alcuni casi anche molto bene. Non voglio idealizzare quel momento, ma sicuramente era un momento in cui – vuoi per un vuoto di proposte, vuoi per un certo bisogno di nuovi linguaggi – si respirava generalmente un’atmosfera positiva, con molte persone che provavano a fare cose e organizzare situazioni, senza necessariamente voler qualcosa in cambio.
Anche quando si suonava davanti a tre persone tutto sommato si tornava a casa con qualcosa, un contatto o un nuovo luogo da frequentare. Ho esordito nel 2007 e dei miei dischi ho sempre stampato mille copie. Le ho sempre vendute tutte, tanto che ormai sono tutti sold out, tranne l’ultimo di cui invece ho ancora un paio di centinaia di copie. Il che è ovvio, perché man mano che ci avviciniamo al presente le copie fisiche vendute sono sempre meno.
Nel frattempo è arrivata l’epoca d’oro dello streaming, un’epoca in cui per fare 10 euro (ovvero il prezzo di un cd al banchetto dei concerti) devi fare circa 2500 streaming. Considerato che fino a dieci anni fa a un concerto vendevi dai 5 ai 20 cd non è un grande affare. E per altro fare 2500 stream non è così semplice. Certo, se il brano finisce dentro una playlist molto seguita è facile veder crescere molto velocemente gli ascolti. Il problema è che sono ascolti da playlist, cioè sono ascolti distratti, di una canzone dentro una lista algoritmica di altre cento canzoni che si somigliano, ben targetizzata a seconda della tua nazione, della tua età, del tuo genere e dei tuoi gusti, non solo musicali. L’atto di comprare un disco dopo un concerto o dopo aver ascoltato un paio di canzoni in radio o online invece è un atto consapevole. Sai perché stai spendendo i tuoi soldi. Lo fai perché quelle canzoni raccontano chi sei, ti fanno piangere, ti danno l’energia per andare a lavoro, ti fanno ballare. Lo fai perché quelle canzoni ti servono davvero.
Nel magico mondo dello streaming è tutto parecchio diverso. Paghi un abbonamento, ok, ma sono 10 euro al mese per avere tutto. Tutta la musica di oggi e di ieri, dentro il telefono. Il che è una figata, se gli artisti che hanno creato quella musica ricevessero il giusto compenso. Poi, certo, chi streamma tanto probabilmente guadagna cifre accettabili, ma là in mezzo, c’è un buon 95% di artisti che creano musica e fanno pochissimi stream per n ragioni, peraltro dopo aver investito somme importanti per produrre il master etc. (vedi sopra). Ed esiste la possibilità che in quella massa indistinta di musica si nasconda il nuovo De Gregori, che magari semplicemente non ce la fa a rompere il muro di rumore di cui siamo circondati. E allora sapete cosa succede dopo? Succede che il nuovo De Gregori molla e addio.
Io credo che in questo inizio di 2023 tutto questo stia diventando lentamente, ma anche in questo caso inesorabilmente, un nervo scoperto: siamo ostaggio dei numeri che facciamo o non facciamo.  È giusto? Le agenzie di booking propongono artisti sventolando i numeri di streaming fatti. I promoter da parte loro non vedono l’ora di annunciare l’ennesimo sold out. Persino sul palco dell’Ariston alcuni musicisti vengono presentati in pompa magna con i numeri di follower dei profili social.
Dall’altra parte però, uno come Guccini decide di pubblicare il nuovo album solo in formato fisico e ciò nonostante viene certificato disco d’oro. Cesare Cremonini dichiara in un’intervista che per nessun giovane cantautore oggi sarebbe possibile pubblicare una canzone come la sua «Poetica», perché non farebbe mai numeri abbastanza grandi. Come dire: l’algoritmo risponde molto di più ad altre proposte musicali. Proposte che – aggiungo io – forse più facilmente possono essere catalogate sotto un mood musicale (ad esempio, «musica rilassante per la domenica mattina») o sotto un’etichetta stilistica di facile comprensione («Pop motivazionale»). È giusto?
Lascio la domanda in sospeso per aprire una breve parentesi. Per chi sta pensando – leggendo queste righe – che «questi sono discorsi da vecchi» o che «Dottori è uno sfigato che rosica», è tutto vero. Non sono più giovane (ho 46 anni) e in parte rosico.
Ma non tanto per me (ho la fortuna di fare comunque il musicista, pur se tra mille preoccupazioni economiche), ma questo perché negli anni ho sempre creduto nell’idea di tener vivo il mio ambiente. Un ecosistema sano è un luogo dove tutti possono avere possibilità e nello stesso tempo possono offrire qualcosa. Esattamente come si fa in natura, anche un ambiente di lavoro deve restare sano. Rosico perché negli ultimi anni ho visto questo ambiente, che è sempre stato altamente competitivo e pieno di contraddizioni che ovviamente ho vissuto e sicuramente ho contribuito ad alimentare, spegnersi. Sono io il problema? Può darsi, ma non ne sono così certo.
La verità è che sono pieno di dubbi e di domande e già questa cosa mi rende un po’ atipico in un panorama in cui tutti mi paiono aver le idee chiare. Quindi torno a fare quello che mi piace fare: sto per pubblicare un nuovo disco, che si intitola «La vita nel frattempo» e che ho iniziato a raccontare qualche mese fa qui e qui. Dopo otto anni di silenzio e molti, forse troppi, ragionamenti, ho deciso che voglio provare a usare le piattaforme digitali. Spotify e compagnia saranno come una radio e come si fa con le radio avranno solo i singoli, un po’ alla volta, mese dopo mese. Nel frattempo però tutto il disco sarà disponibile in formato fisico, vinile, libro e cd e in formato digitale su Bandcamp. Lancio un sasso nello stagno e vediamo se la mia piccola onda ne fa nascere una più grossa.

Giuliano Dottori

 

  • Adagio Sostenuto |

    Grazie Giuliano, hai detto tutto, e bene, quello che avrei voluto dire io. Aggiungo solo, così per chiarezza degli altri lettori, che quei numeri di streaming, o di follower, tanto strombazzati in giro, così come le posizioni nelle playlist, in buona parte si pagano, attraverso mille e più agenzie (basta fare una ricerca su Google).

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