«Woodstock? Io c’ero». L’unico italiano fu il discografico Lucio Salvini (in auto con gli Ertegun, poi appuntamento nel backstage con Joan Baez)

Ma italiani a Woodstock ce n’erano? La domanda rimbalzata due giorni fa sul web da «Money, it’s a gas!» in occasione del 47esimo anniversario della tre giorni di pace, amore e musica ha solleticato la fantasia di molti, appassionati delle sette note e non. Di testimonianze ne abbiamo raccolte parecchie, tra ipotesi («Dovevano esserci: gli italiani sono ovunque»), provocazioni («Se c’erano, erano fuori dai varchi a vendere i biglietti»), leggende metropolitane («C’era Eugenio Finardi», scrive qualcuno. Siamo sicuri? Il cantautore de «La radio» all’epoca aveva appena 17 anni). Lucio Zigante di Monfalcone su Facebook ci racconta di un suo vecchio amico di nome Ilario che ebbe modo di assistere al concerto. Ilario, se ci sei scrivici e raccontaci tutto. Antonio Tagliani c’è stato adesso in pellegrinaggio e condivide con noi la foto che lo ritrae sulla lapide commemorativa della Yasgur Farm. Nilo Gisfredi sposta il campo a Monsummano dove al locale festival, caduto due settimane esatte prima del concerto più famoso di tutti i tempi, il 22enne David Bowie si piazzava secondo con «When I live my dream». Ma che Paese siamo? Testimonianze dirette di Woodstock in ogni caso niente. Almeno fino a quando Renzo Chiesa, tra i maggiori fotografi di musica che abbiamo avuto (suo, per dirne una, è l’iconico ritratto del Lucio nazionale sulla copertina dell’album «Dalla»), ci dà una dritta preziosa: «Prova a chiedere a Lucio Salvini». Bingo: chi se non l’ex direttore generale della gloriosa Ricordi e ad di Fonit Cetra, l’uomo che fu il destinatario del testo de «Il gatto e la volpe» di Edoardo Bennato poteva essere stato a Woodstock?

 

Ed eccolo qui il suo racconto da spettatore privilegiato – perché addetto ai lavori – dell’evento che spaccò a metà la storia della musica e del costume del Novecento: «Era agosto ma ero a lavoro, – ricorda – in giro per gli Stati Uniti. A quell’epoca ero all’ufficio stampa della Ricordi. Venni a sapere di questo mega-concerto e chiamai a telefono la Atlantic, etichetta di cui in Italia pubblicavamo il catalogo». Nel giro di qualche ore Salvini si sarebbe trovato in macchina con i fratelli Ahmet e Nesuhi Ertegun, i due mitici produttori che quella label la fondarono, gente dalle cui biografie la serie tv «Vinyl» ha attinto a piene mani. Il viaggio da Manhattan a Bethel fu una roba da incubo: «Trascorremmo – ricorda Salvini, nella foto immortalato accanto a George Harrison – dalle sei alle sette ore in auto per fare un tragitto lungo poco più di 110 miglia. La polizia aveva predisposto una corsia preferenziale per gli addetti ai lavori. Nonostante avessimo il pass della Atlantic fu un inferno. C’era una coda incredibile che cominciava 70 miglia prima del luogo del concerto. Molti di quanti raccontano di essere stati a Woodstock probabilmente non fecero neanche in tempo a raggiungere il concerto». E in quei giorni c’era consapevolezza del fatto che stesse accadendo qualcosa di speciale? «All’inizio no. Woodstock non era il primo, né l’ultimo concerto di quel genere. Io stesso avevo avuto la fortuna di partecipare al Monterrey Pop Festival un anno prima, sarei poi stato all’Isola di Wight. Era facile per un artista “snobbare” un evento così, perché l’offerta era molto ampia. Dopo il primo giorno di festival, però, chi c’era cominciò a captare che stava accadendo qualcosa, che “tre giorni di pace, amore e musica” in quel caso era molto di più di un semplice slogan. In molti, tra gli artisti che rifiutarono Woodstock, se ne sarebbero pentiti amaramente». Nel backstage Salvini trovò anche qualche vecchia conoscenza: «Trascorsi un po’ di tempo con Joan Baez che in Italia era una nostra artista». Sotto il palco la sfera personale incrociava infatti quella politica: «Joan era incinta. Bellissima con quel pancione nascosto dalla chitarra». Quanto alle performance, non tutte furono tecnicamente ineccepibili: «Santana, Jefferson Airplane e Ten Years After, per esempio, ebbero problemi con l’amplificazione ed ebbero a lamentarsene». Poi ci fu chi ci mise tutta la birra che aveva in corpo: «Memorabile il set dei Creedence Clearwater Revival che un giorno mi sarei ritrovato in scuderia, quando passai alla Fonit, esplosivi Crosby, Stills & Nash che trovarono in Neil Young una sponda fenomenale. Non esagero se dico che il successo planetario di “4 Way Street”, quell’energia che lo rende uno dei dischi live più belli di sempre sia nata a Woodstock. E poi Hendix che suona di mattina. Qui davvero non trovo parole». Salvini, in ogni caso, era lì per lavoro: «Rimasi impressionato da Country Joe McDonald. Pubblicava per la Vanguard, stessa casa discografica della Baez, ma in Italia non lo avevamo distribuito per paura di fare flop. A Woodstock decisi che era arrivato il tempo di colmare quella lacuna». Tornando al nostro interrogativo iniziale: c’erano (altri) italiani a Woodstock? «Non ne incontrai, ma mi pare puttosto difficile», conclude Salvini. «Erano tempi in cui non ci si spostava così facilmente. E poi da noi non c’era ancora percezione di quello che stava accadendo». La rivoluzione, come dire, era di un altro pianeta.