La musica nell’epoca della sua riproducibilità in streaming continua a viaggiare alla disperata ricerca di un equilibrio economico. Vale per gli artisti (che intascano pochissimo dalle performance di streaming dei propri brani), per le case discografiche (che vedono, sì, tornare a crescere il proprio business ma sono lontanissime dai fasti dei tempi del supporto fisico) e per le stesse piattaforme di streaming. Un caso su tutti: quello di Spotify, la società svedese che conta il maggior numero di utenti al mondo. Music Business Worldwide ha fatto l’analisi dei bilanci 2015 e qualche interrogativo, a leggere i numeri, effettivamente uno se lo pone. I ricavi complessivi della creatura di Daniel Ek (nella foto) hanno raggiunto quota 1,95 miliardi, per una crescita di addirittura 79,8 punti percentuali sull’anno precedente. Se avanza il business, stesso vale anche per le perdite nette che si attestano a quota 173 milioni, a fronte dei 162,2 milioni del 2014 (+6,6%). Avanzano sia i ricavi dagli abbonamenti (che raggiungono quota 1,74 miliardi), sia quelli da pubblicità (195,8 milioni). A considerare la «torta» complessiva del business di Spotify, gli abbonamenti valgono l’89,9%, mentre la pubblicità si attesta al 10,1 per cento. Il dato che tuttavia cattura l’attenzione è un altro. Parallelamente al balzo in avanti del fatturato, sono cresciute in maniera esponenziale anche le spese sostenute nei confronti dell’industria discografica (versamento di royalties, costi di distribuzione eccetera) che, a fine 2015, hanno toccato gli 1,6 miliardi, l’85% in più rispetto all’anno precedente. In pratica, Spotify – che in questi giorni, per fare concorrenza a Apple Music, ha ampliato l’offerta Family sino a comprendere sei utenze per 14,99 euro al mese – versa nelle casse delle label l’84% dei propri ricavi. E così la «next big thing» dell’industria della musica continua a cercare un centro di gravità permanente. E con lei l’intera industria della musica.
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