I 75 anni di Bob Dylan e quell’esordio di 55 anni fa, alla corte di un calabrese del Greenwich Village

Adesso si è messo in testa di fare il crooner. Con un’inedita sensibilità country, però, perché qualunque cosa faccia, il suo «tocco» deve essere riconoscibile, rapire, spiazzare, persino indispettire. Stiamo parlando di Bob Dylan (qui in una rara foto dei primi anni Sessanta, tratta dal libro «Bob Dylan: NYC 1961-1964» di Ted Russell), tra le rarissime figure ecumeniche della musica popolare del Novecento che oggi, 24 maggio, taglia il traguardo dei 75 anni. E festeggia con «Fallen Angels», altro disco di standard (stravolti) del Great American Songbook appena uscito per Columbia Sony Music che fa il paio con il precedente «Shadows in the Night», pubblicato l’anno scorso. «Money, it’s a gas!» festeggia con un ripescaggio: ripubblichiamo ampi stralci di un articolo apparso sul Sole 24 Ore online nell’aprile di cinque anni fa, in occasione del cinquantennale dell’esordio live di «Sua Bobbità». I numeri sono un po’ da aggiornare – per dire: le copie vendute nel mondo hanno superato quota 125 milioni –  ma per il resto confermiamo tutto. A partire da ciò che successe quel martedì.

 

Martedì, 11 aprile 1961. Al Gerde’s Folk City, localaccio del Greenwich Village che serve al suo pubblico di intellettuali engagé musica rigorosamente tradizionale, è di scena il bluesman John Lee Hooker. Poco prima dell’esibizione il proprietario della bettola, un calabrese di nome Mike Porco, getta allo sbaraglio un ragazzino che non ha ancora compiuto 20 anni e pochi mesi prima è arrivato nella Grande Mela, viaggiando clandestinamente – a detta sua – su un treno merci. È ebreo, viene dal Minnesota, all’anagrafe risulta registrato come Robert Allen Zimmerman ma di lì a un anno inciderà il primo disco per la Columbia con lo pseudonimo di Bob Dylan. La grande storia passa spesso e volentieri per questi piccoli quanto curiosi incroci: questo mese ricorrono esattamente cinquant’anni dalla prima esibizione professionale del Menestrello di Duluth, un live act essenziale (chitarra acustica, armonica e un filo di voce gracchiante per un repertorio all’insegna di Woody Guthrie) che avrebbe cambiato la storia della musica contemporanea. E, ancora di più, quella del costume. La carriera di uno così la puoi misurare in molti modi differenti. La produzione discografica, innanzitutto (…). Sarà anche un’icona della controcultura degli anni Sessanta ma Dylan ha venduto tantissimo (…). Poi i riconoscimenti della critica: 11 vittorie ai Grammy su 12 nomination, un Oscar e un Golden Globe, perché sconfinare dalla musica al cinema è poca cosa per uno come lui. Più la (scontatissima) introduzione nella Rock and Roll Hall of Fame dell’88 e ben cinque canzoni annoverate dalla stessa istituzione americana nella lista dei cinquecento brani migliori di tutti i tempi. E tanto per non farsi mancare niente, il suo nome ogni anno spunta tra i papabili per il Nobel alla letteratura. Quelli che, in giro per il mondo, vantano un curriculum del genere si conteranno sulle dita di una mano. Altro fondamentale metro della grandezza di Dylan sta nell’influenza esercitata sui suoi contemporanei perché, com’è noto, gli artisti comuni seguono le tendenze, quelli straordinari le determinano. Eccolo allora debuttare nel solco del folk più tradizionale e impegnato di Pete Seeger dello stesso Guthrie, con lo sguardo timido, i capelli crespi, gli standard reinterpretati nell’album d’esordio e quelli «imposti» dai successivi «The freewillin’ Bob Dylan» e «The times they are a-changin’», la partecipazione alla marcia per i diritti civili del ’63, la liaison con la già famosa collega Joan Baez e il suo ruolo d’icona beatnik che improvvisamente cresce. Poi la svolta rock del ’65, la folta criniera riccia, la magrezza monacale e i Wayfarer che ne coprono gli occhi spiritati, l’incontro coi Beatles, la scelta di appoggiarsi a una backing band che suona «elettrico», altre pietre miliari come «Highway 61 revisited» e «Blonde on blonde», le accuse di tradimento da parte dei seguaci che non si riconoscono in tutte queste novità giudicate «di orientamento commerciale». Poi ancora il ritiro dalle scene e la svolta country («Nashville Skyline» e il duetto con Johnny Cash) proprio mentre nel mondo impazza la contestazione, le autocelebrazioni e le apparizioni cinematografiche di inizio anni Settanta, l’episodica conversione al cristianesimo (memorabile in questo senso il disco «Saved»), le atmosfere black che qua e là affiorano. Il nostro ne ha cambiato di volte pelle, in questi cinquant’anni. E il mondo a ruota dietro di lui (…).