Quando si fa giornalismo non sta bene scrivere in prima persona. Neppure su un blog. Però, certe volte, ci sono circostanze che proprio ti obbligano. Prendete me: sono di Pompei; sono «patito» (dalle mie parti si dice così quando una passione è troppo grande) di musica; di Pompei e di musica mi occupo con costanza per motivi di lavoro. Della faccenda del concerto di David Gilmour nell’anfiteatro e dei biglietti che costano 300 euro più il 15% di prevendita stavolta voglio allora scrivere in prima persona. Mettendoci la faccia, anche se quello che leggerete potrebbe non piacervi. Mettendo in fila due o tre pensieri.
Uno: Pompei non è nuova alla grande musica dal vivo. Senza tirare in ballo il «Live at Pompeii» dei Pink Floyd – che un concerto nel senso tradizionale del termine non fu – nel Teatro Grande degli scavi, volendo stare stretti, si sono esibiti Miles Davis (1984), Leonard Bernstein (1986) e Frank Sinatra (1991). Per quest’ultimo concerto, ricordo che si gridò allo scandalo: il biglietto costava dalle 200 alle 350mila lire, in tempi in cui uno stipendio medio si aggirava intorno al milione e due. Ma il vero scandalo non era il prezzo, quanto piuttosto il traffico disinvolto di biglietti gratuiti a vantaggio degli amici degli amici. Non degno di una grande location della musica dal vivo.
Due: da nativo pompeiano in 40 anni mi avevano più volte raccontato la favola su un possibile ritorno dei Pink Floyd sotto il Vesuvio. Non ci avevo mai creduto perché, in tempi di crisi strutturale della musica incisa, l’attività live è la principale entrata per un artista, le produzioni diventano sempre più costose e nessuno – neanche Gilmour – può permettersi il lusso di organizzare un concerto a perdere. E così se sommi il costo della produzione di una star planetaria alla necessità di contingentare gli accessi per preservare un bene culturale preziosissimo quanto fragilissimo (vi dice niente il nome Schola Armatorum?), al fatto che non è più tempo di lauti patrocini da parte degli enti pubblici e che Gilmour non vuole sponsor (essì, cari floydiani dell’ultima ora: lo accusate di mercimonio ma ha la schiena più dritta del manico della sua Stratocaster), il risultato che ottieni è un prezzo da biglietto sensibilmente alto.
Tre: la polemica sull’eccessivo costo dei biglietti ci ha messo poco a diventare paradossale, così come succede alle polemiche per l’eccessivo costo di qualsiasi altra cosa. Si dice «La musica è di tutti», tirando fuori categorie che ispirarono bruttissime pagine di ordine pubblico degli anni Settanta. Voglio essere d’accordo, ma non dimentichiamo che la musica per qualcuno è un lavoro. E l’auspicio è che Gilmour e Elton John portino un bel po’ di lavoro, direttamente e indirettamente, al territorio vesuviano. Si dice «Un evento del genere non deve diventare elitario» perché «Non è giusto negare l’arte di Gilmour a decine di migliaia di ragazzi che non possono spendere 345 euro». Giusto, ma allora non può essere Pompei il luogo di questa divulgazione di cultura, perché Pompei 30mila spettatori non li può ospitare. Gilmour viene ormai una volta l’anno in Italia. Se non puoi pagarti l’unicità di questo evento, vai a vederlo altrove.
Quattro: sono al di sopra di ogni sospetto. In questi anni sono stato parecchio critico con molte scelte riguardanti Pompei da parte del ministro Dario Franceschini e dei suoi predecessori, nonché da parte del soprintendente Massimo Osanna e dei suoi predecessori. Fanno fede i miei articoli. Stavolta, però, li difendo. Se è vero, come ci dicono, che non ci saranno biglietti gratuiti per le autorità, che ogni tagliando sarà nominale così da annientare la piaga del secondary ticketing, che dal concerto verrà tratto un Dvd e che a Pompei saranno devolute specifiche royalties sulla vendita di quest’ultimo, significa che siamo sulla buona strada.
Cinque: mi piacerebbe che in queste tre serate da 2.500 spettatori ciascuna (ci metto anche Elton John) venissero 7.500 turisti provenienti da un capo all’altro del pianeta. Quei turisti che a Pompei di solito arrivano in autobus, restano un paio di ore e poi ripartono senza lasciare un briciolo di indotto. Mi piacerebbe che questi 7.500 turisti portassero via con loro il ricordo di una serata in cui a Pompei, una volta tanto, ha funzionato tutto. Dall’assolo di «Time» al servizio d’ordine. Mi piacerebbe che gli unici cani ad aggirarsi intorno al palco, nelle notti del 7 e dell’8 luglio, fossero gli spiriti di «Seamus» e «Mademoiselle Nobs». Mi piacerebbe che la musica diventasse d’ora in poi per Pompei un formidabile veicolo di marketing territoriale. E se 345 euro per un pezzo di storia ci sembreranno troppi, aspetteremo il Dvd. Lo compreremo con il conforto di aver contribuito, in maniera indiretta, alla manutenzione degli scavi.