Una volta c’era «Mixed by Erry». Andavi alla bancarella di fiducia – sempre che eri residente in una delle fortunate città dell’ex Regno borbonico – e al modico prezzo di 2.500 lire compravi l’«ultimo» di Zucchero, Pino Daniele o Eros Ramazzotti in formato musicassetta «timbrata» dal misterioso «hacker» ante litteram. Ma attenzione: «Le cassette con fotocopie non sono Mixed by Erry», recitava l’avvertenza, perché pure il pirata (della musica) per eccellenza aveva i suoi bei problemi con la pirateria. Poi vennero i cd masterizzati, gli mp3, il file sharing, Napster, WinMx e tutto il resto dietro… La pirateria in musica ha un passato lungo che, a onor del vero, non è ancora passato. Lo dimostra un rapporto diffuso dall’Ifpi, la federazione mondiale delle major discografiche, secondo cui il fenomeno riguarda ancora il 38% degli utilizzatori. Dato che in Italia scende al 21 per cento. La forma più comune di violazione del copyright è il cosidetto «stream ripping» (32%), cioè lìutilizzo di semplici software online per registrare l’audio di video come quelli di YouTube. Al secondo posto c’è il «vecchio» peer to peer, quello che fece la fortuna di Napster, usato dal 23% di chi infrange la legge, mentre al terzo c’è l’acquisizione di file trovati attraverso i motori di ricerca. La motivazione principale per l’uso illegale è «poter ascoltare le canzoni offline senza pagare i servizi premium. La pirateria musicale è scomparsa dai media negli anni scorsi ma di sicuro non è un fenomeno passato – afferma al Guardian David Price, uno degli autori del rapporto -. Le persone amano ancora le cose gratis, quindi non ci sorprende che molte lo facciano. Ed è relativamente facile piratare la musica». Ogni settimana in media un utilizzatore ascolta 17,8 ore di musica. Secondo il rapporto l’86% degli utilizzatori di musica sceglie i servizi di streaming audio o video (il 53% in Italia), ma una percentuale identica indica anche la «vecchia» radio tra i dispositivi utilizzati (in Italia il 90%). Più o meno come faceva Mixed by Erry.
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