Aria di feste, giusto allentare un po’ la presa e mettersi a parlare in prima persona singolare. Suvvia: diciamo io, ogni tanto! Non so voi, ma io il sabato mattina porto mio figlio a scuola di musica. Studia batteria, è ancora piccino ma si diverte e questo, quando ti avvicini alla musica, conta più di tutto il resto. Lui trascorre la sua brava mezzoretta con il maestro, a pestare tamburi nella sala insonorizzata, io dall’esterno, seduto in un angolino, mi godo ogni minimo progresso e – da bravo papà napoletano in the mood – «tengo il cuore dentro lo zucchero». Mio figlio nella sua sala insonorizzata, come tanti altri ragazzi nella loro, ciascuno con il proprio strumento in mano e il proprio maestro accanto.
Uno di questi sabati è successo che, da una delle innumerevoli sale insonorizzate della scuola, in mezzo a innumerevoli rumori in sottofondo mi sono arrivati alle orecchie suoni parecchio familiari, due accordi incisi 52 anni fa: era «My Generation» degli Who. La maestra di canto aveva messo quel pezzo e la sua allieva, un’adolescente presumibilmente cresciuta a pane e nu soul, si esercitava inseguendo i divini tartagliamenti di Roger Daltrey. «People try to put us d-d-down», avete presente? A me che, pur essendo stato ragazzino negli anni Novanta, sono cresciuto a pane e rock anni Sessanta, è immediatamente partito di riflesso il dondolio della scarpa e ci stava quasi scappando la lacrimuccia.
«Ma tu guarda com’è in gamba questa maestra di canto», mi sono detto. «Riesce a imporre il manifesto programmatico della cultura mod in mezzo al deserto ideologico dell’epoca dei talent show».
Non bisogna però mai essere troppo precipitosi nei giudizi. Sia in positivo che in negativo. Mi è infatti bastata la mezzoretta di lezione di mio figlio per ricredermi: maestra e allieva adolescente sono uscite dalla loro sala e andate incontro alla mamma della ragazzina, scambiandosi qualche amabile chiacchiera sul perché e il per come.
«Mia figlia ci teneva a mettersi alla prova con la musica. Era tentata dal basso, alla fine ha deciso di studiare canto», ha detto la mamma.
«E ha fatto benissimo», ha replicato la maestra. «Io questa cosa del basso proprio non la capisco. È noioso, suona poche note e non è neanche uno strumento solista. Il basso è come la viola nel quartetto d’archi: è inutile».
Poco c’è mancato che la stessa scarpa che una mezzoretta prima dondolava felice mi partisse dal piede. E non perché da ragazzino – poco più grande di mio figlio – andavo dal maestro di basso, a mia volta accompagnato da mio padre. Dico: hai appena messo «My Generation», pezzo che sul basso si struttura, in cui il basso non è per niente noioso, non suona poche note ed è strumento solista… come fai a dire certe cose? Che male ti ha fatto John Entwistle (nella foto), il «Bue virtuoso» che con quattro corde e due mani, negli Who, spesso e volentieri rubava la scena ai tre compari impegnati a sfasciare il palco? Dopo quel pezzo non possiamo non dirci bassisti, signora mia. Nessuno di noi può.
E poi che male ti ha fatto la viola del quartetto d’archi?
Riesce difficile pensare che a fine 2017 ci sia ancora gente in circolazione che parla di strumenti musicali inutili. Non tocca certo a me difendere il ruolo del basso o quello della viola: si difendono benissimo da soli, a saperli ascoltare. A sapere ascoltare. Indifendibili mi sembrano piuttosto certe parole pronunciate da chi la musica la insegna. Rimandano a un problema più generale: la formazione di docenti validi, qualunque sia il campo preso in esame. Tema, tra l’altro, parecchio caro a Ennio Morricone, tra i pochissimi maestri al di sopra di ogni sospetto. Di cattivi maestri, al contrario, ne abbiamo fin troppi.