Michael Stipe e l’addio per sempre ai R.E.M.: the great rock and roll resignation

Perdonateci se torniamo ancora una volta su Michael Stipe. È venuto a Milano (nella foto Lapresse) per l’inaugurazione della mostra «I have lost and I’ve been lost but for now I’m flying high» alla Fondazione Ica, lo sapete, e per il lancio del suo quarto libro fotografico «Even the birds gave pause» (Damiani Books).

Saprete pure che con lentezza – pensosa lentezza – sta lavorando al suo nuovo album solista. Siamo partiti da qui per rivolgergli l’ultima delle nostre domande, consapevoli che si trattava della domanda che più volte si era sentito rivolgere in questi anni: quella su una (eventuale, fantomatica) reunion dei R.E.M. prima o poi, da qui all’eternità. Risposta secca, perentoria: «No. No. Abbiamo fatto un ottimo lavoro per 31 anni, ci vogliamo un sacco di bene, ma ci siamo messi tutti a fare altre cose».

Non che ci aspettassimo niente di diverso, conoscendo un minimo la postura della band di Athens, ma queste parole ci hanno colpito comunque, alla luce di certe dinamiche che animano l’economia della musica nell’epoca dello streaming.

Facciamo un passo indietro: i R.E.M. hanno avuto una parabola incredibile, sul piano artistico e non solo. Sono partiti indipendenti con la I.R.S., senza l’ossessione del successo a tutti i costi. E ci hanno dato capolavori come «Murmur» (1983) e «Life’s a reach pageant» (1986). Poi il successo è arrivato e, con il successo, anche il (primo) contratto per  Warner Music. E ci hanno dato capolavori come «Green» (1988), «Out of time» (1991) e «Authomatic for the people» (1992).

Poi è arrivato ancora più successo e, con ancora più successo, il rinnovo con Warner Music del 1996 da 80 milioni di dollari, cifra astronomica per l’epoca. E così i R.E.M. sono rimasti in casa Warner Music fino all’ultimo «Collapse into now» (2011). La cosa divertente è stata che, quando nel 2015 è scaduto l’accordo di licenza con Warner, i membri della band si sono accordati con Concord Bicycle Music per tutta la parte del catalogo che andava da «Green» in avanti.

Riassumendo: la produzione indipendente (I.R.S.) dei R.E.M. ora è in mano alla Universal Music Group, la principale major del mercato globale (ci entrò via Emi), mentre quella major (Warner Music) adesso è di Concord, una label indipendente. Mettendo insieme tutto – compresi i 90 milioni di dischi venduti e i tre Grammy vinti – una residency a sei zeri in un bel teatro americano prestigioso con i R.E.M. che rifanno i R.E.M. la potrebbero portare a casa domani, ma l’oggetto non interessa. Perché, come esiste The Great Resignation, evidentemente esiste pure The Great Rock and Roll Resignation.

E attenzione: non stiamo parlando dei fratelli Gallagher che quando si vedono si menano e quando non si vedono si insultano. Michael Stipe, Mike Mills, Peter Buck e Bill Berry si vogliono bene, vogliono bene a ciò che sono stati i R.E.M. ma fanno mille altre cose, ciascuno le proprie, e va bene a tutti così. Perché sono veramente fuori dal tempo (e questo si capiva già nel ‘91). Ci fa strano, dal momento che siamo ormai rassegnati all’epoca del «pochino di più», quella in cui chi ha incontrato il successo è spesso e volentieri pronto a uccidere pur di tenerselo. E se non riesce a tenerselo almeno prova a strapparne un altro pezzettino, con le unghie e con i denti, mentre la tigre lo sta fatalmente disarcionando.

Michael Stipe, con la sua vita e con la sua arte, ci insegna che se ne può anche fare a meno a un certo punto; che si può esercitare il diritto di averne avuto abbastanza; che ci si può dedicare ad altre cose forse più interessanti, senza dubbio nuove ma non necessariamente altrettanto redditizie rispetto a quello che facevamo quando avevamo 20 o 30 anni. Perché la notizia è che non abbiamo 20 o 30 anni per tutta la vita.