Questa è l’unica recensione negativa di «Hackney Diamonds» nell’arco di 30mila chilometri che leggerete oggi. Nessuno parla male del ritorno discografico dei Rolling Stones, nessuno critica l’unico loro album di inediti contenente materiale originale da 18 anni a questa parte, il primo senza la buonanima di Charlie Watts, probabilmente l’ultimo della loro carriera. La notizia non è se il disco vale o non vale, tantopiù che la critica che metteva le stelle ai dischi non esiste più. La notizia è che i Rolling Stones fanno ancora dischi a 80 anni e allora ce li dobbiamo far piacere così come sono.
La verità che nessuno vi ha detto è che «Hackney Diamonds» è un disco deboluccio, perché è un disco di filler, pezzi riempitivo, roba tanto per fare. E lo diciamo con la morte nel cuore, perché siamo loro grandissimi fan e la loro ultima apparizione a San Siro ci ha commosso nel profondo. Ma quando le proprie buone stelle si eclissano chi è pagato per scrivere ha il dovere di farlo. Anche con Bob Dylan filosofo non ci regolammo molto diversamente. E allora scriviamo.
In «Angry» prevale lo sbracciarsi inconcludente di Mick Jagger, «Get Close» è tutta attesa di un ritornello che immancabilmente arriva come ci si aspetta da loro, «Bite my head off» la ripetizione ossessiva compulsiva dello stesso riff di Keith Richards sino alla noia. Compitino. Ma come, direte voi, possibile che nel nuovo album dei Rolling Stones non ci sia una bella canzone? In realtà c’è: la ballad «Sweet Sounds of Heaven» a dire il vero è bellissima, ma non è nuovissima. Se ci fosse la critica che una volta metteva le stelle ai dischi si sarebbe accorta che la canzone in realtà è un calco di «I’ve got dreams to remember» di Otis Redding. E proprio quel pezzo, guarda certe volte i casi della vita, nel 1982 fu oggetto di una cover poi rimasta inedita, ma rintracciabile spulciando tra i meandri del web, o studiando «The Rolling Stones Complete Recording Sessions 1962-2012» di Martin Elliott. Eppure nel 2023 leggi i credits di «Sweet Sounds of Heaven» e trovi scritto Jagger-Richards. Chissà cosa ne pensano i Verve…
Ma come, dirà qualche altro, ci sono Elton John che suona il piano, Stevie Wonder e Lady Gaga che fanno i cori, Paul McCartney che suona il basso, mancava poco mettessero Rivera e Mazzola a palleggiare sullo sfondo della sala d’incisione e il disco non ti piace? No, perché stiamo parlando di sovrastrutture e i dischi dei Rolling Stones ne hanno sempre volentieri fatto a meno, erano dischi in cui c’era magari la mano di Gram Parsons ma neanche veniva riportato nelle note di copertina. La loro cifra era quella e soltanto quella: sovrastrutture zero.
E adesso invece è tutta scelta del vinile colorato, del gadget esclusivo che puoi comprarti al popup store, della maglia del Barcellona con la lingua da sfoggiare al Camp Nou per il «Clasico» della Liga. È tutto marketing, come nella dichiarazione rivolta all’Italia in cui Mick dice che i Maneskin sono la più grande rock and roll band del mondo. Uno, due, tre: casino, si parla per far parlare, poi tutti quanti a buttarcisi sopra! Non c’è niente di male nel marketing applicato alla musica, ma smettiamola di dire che questo disco è il loro più bel disco da chissà quanto tempo. Smettiamo di enfatizzare il «sound» del produttore Andrew Watt: i dischi dei Rolling Stones da «Voodoo Lounge» in poi suonano un po’ tutti allo stesso modo.
Ma allora, direte voi, le rockstar non hanno diritto a invecchiare restando creative? In realtà una strada possibile per invecchiare restando creativi gli Stones ce l’avevano indicata con «Blue & Lonesome», un album di cover blues a modo loro, uno sciacquare i panni nel delta del Mississippi, ritorno alla Casa del Padre. Mica per caso, tra le poche cose che abbiamo apprezzato di «Hackney Diamonds», c’è la versione minimal di «Rolling Stone Blues» nel senso della cover di Muddy Waters. Per inciso: la canzone da cui 60 e più anni fa presero nome. Per il resto… abbiamo finito, Vostro Onore.