Musica e intelligenza artificiale: e se le canzoni scritte dall’algoritmo fossero protette dal diritto d’autore?

L’impatto dell’intelligenza artificiale sulla produzione della musica è il dibattito per eccellenza, in questo particolare momento storico per il music business. Ospitiamo per questo l’intervento di Paolo Galli, partner dello studio Baker McKenzie esperto di diritto d’autore che analizza il tema proprio da questa precisa prospettiva.

Il tema
In questi anni, l’intelligenza artificiale è finita al centro di un dibattito particolarmente acceso per i problemi etici, politico-culturali e non da ultimo giuridici che il suo dilagare ha sollevato. Limitandoci qui ai temi più propriamente giuridici, nella specie quelli legati alla disciplina della proprietà intellettuale, l’idea che sembra prevalere è che oggi come oggi non vi siano spazi per la tutela delle creazioni dell’intelligenza artificiale attraverso diritti Ip e che di riflesso qualunque output generato dalle macchine intelligenti dovrebbe rimanere di dominio pubblico.

La creatività, si dice, è un concetto legato all’idea di uomo e non di macchina. Le macchine non solo non sanno provare sentimenti ma non possono nemmeno creare. Per corollario la proprietà intellettuale dovrebbe rimanere di appannaggio esclusivo delle innovazioni dell’uomo e non di quelle delle macchine.

In realtà la questione non è affatto semplice e scontata come appare. Tanto più che l’idea di assoggettare le creazioni dell’intelligenza artificiale a un regime di dominio pubblico, negando loro ogni forma di tutela, è stata scartata quasi all’unanimità dagli studiosi che si sono occupati del tema (il “quasi” è d’obbligo). Si rischia poi di favorire lo sfruttamento dei trovati generati dalle macchine intelligenti in regime di segreto anziché con modalità che ne incentivino la diffusione presso il pubblico insieme al sapere che vi sta alla base; e non mi pare nemmeno corrispondere agli interessi in campo (e non solo quelli della collettività), come vedremo subito.

Quando si parla di creazioni dell’intelligenza artificiale e di loro protezione mediante diritti IP occorre del resto distinguere quantomeno due profili diversi: uno legato al processo generativo in quanto tale, e l’altro legato al risultato di tale processo.

Un conto è infatti la macchina intelligente programmata per generare qualcosa di nuovo, quale ad esempio un’opera dell’ingegno, un trovato della tecnica, un disegno industriale od altro ancora. Altro è il risultato del processo generativo intelligente, cioè l’opera dell’ingegno, il trovato della tecnica, il disegno industriale realizzati dalla macchina. Sia le macchine intelligenti che il loro output pongono questioni che in qualche modo interessano la disciplina della proprietà intellettuale, ma non è detto che sul tema che qui interessa della loro protezione attraverso diritti IP le soluzioni siano le stesse.

Le macchine intelligenti
Le macchine intelligenti possono essere protette da diritti di proprietà intellettuale, anzi: lo sono quasi sempre. Sostenere il contrario sarebbe anacronistico oltre che tecnicamente non corretto. Il primo diritto che viene in mente è il diritto d’autore, e questo è un diritto che, quantomeno dagli anni Novanta del secolo scorso, è pensato per proteggere anche i software di qualunque tipo compresi quelli realizzati per creare innovazioni a valle. C’è poi la disciplina brevettuale e l’Epo, per esempio, cioè l’ufficio preposto in Europa alla concessione dei brevetti europei, ha da tempo rilasciato brevetti consistenti nell’applicazione di logiche di intelligenza artificiale ai più disparati settori della tecnica, anche se non dell’arte: dalla medicina (si pensi ad un apparato che simuli il processo neurologico per controllare il battito cardiaco), all’industria televisiva (si pensi al controllo artificiale della qualità delle immagini o dei suoni), o manifatturiera (si pensi ad un apparato che effettua simulazioni per calcolare e prevedere variazioni dello stato fisico di oggetti). E non è un caso. Realizzare macchine intelligenti ha un costo e questi costi necessitano di una qualche forma di protezione, in termini di ritorno degli investimenti, al pari dei costi sostenuti per produrre qualunque altro risultato creativo od industriale «tradizionale».

Gli output dell’intelligenza artificiale
Il discorso si fa più complesso, ma nemmeno troppo, quando si guarda all’output generato dalle macchine intelligenti. Qui occorre tuttavia sgombrare il campo da un equivoco di fondo. L’idea di proteggere l’output dell’intelligenza artificiale con diritti IP non è così peregrina o lontana dalla realtà, come talvolta si è letto o si è sentito dire. Al contrario.

Nel Regno Unito, per esempio, le opere create dall’intelligenza artificiale sono già oggi protette col diritto d’autore anche se per un periodo di tempo più breve rispetto a quello delle creazioni umane (50 anni dalla realizzazione dell’opera anziché per l’intera vita dell’autore e altri 70 anni dalla sua morte).

Nel diritto d’autore europeo la questione è dibattuta: e curiosamente i sostenitori delle tesi favorevoli e di quelle contrarie alla protezione dei risultati dell’intelligenza artificiale invocano i medesimi precedenti normativi e giurisprudenziali.

Un chiarimento della Corte di Giustizia o del legislatore è a questo punto più che auspicabile. In Italia la questione è stata recentemente discussa nell’ambito di una controversia legata all’utilizzo di un fiore frattalico digitale in un programma televisivo, e in una sua decisione dello scorso gennaio la Cassazione sembrerebbe aver mostrato una qualche apertura verso la tutela delle opere create con l’ausilio anche prevalente di macchine intelligenti, per quanto soltanto in un orbiter dictum, cioè in un passaggio che non esprime un principio di diritto della decisione ma una sorta di digressione sul tema. Rimane tuttavia pur sempre una digressione della Cassazione.

Brevetti su trovati generati artificialmente sono stati concessi in alcuni paesi (in Australia e in Sudafrica) anche se non in Europa, dove al contrario l’EPO e diversi stati europei si sono arroccati su posizioni più conservative. In realtà, studi recenti sembrerebbero aver superato l’idea di fondo che sta alla base di queste posizioni, radicate per lo più nel diritto brevettuale europeo: l’idea cioè che i diritti IP tutelino soltanto creazioni umane e non anche prodotti «artificiali».

Personalmente questa idea non mi ha mai convinto e continua a non convincermi. E infatti anche le creazioni dell’uomo, talvolta, non si discostano da quelle dall’intelligenza artificiale ma non per questo si è mai dubitato della loro proteggibilità col diritto d’autore, ad esempio. Stephen King ha affermato di aver scritto «Cujo» sotto l’effetto di droghe, al punto di non ricordare nemmeno di averlo scritto, eppure nessuno metterebbe in discussione che «Cujo» sia un romanzo protetto dal diritto d’autore, in Italia come nel resto del mondo.

Quando poi parliamo coi nostri famigliari oppure coi nostri colleghi di lavoro, o ci scambiamo messaggi su Whatsapp, nessuno pensa seriamente di creare delle opere, eppure i discorsi e i messaggi scritti, anche tra famigliari o colleghi, sono opere dell’ingegno protette dal diritto d’autore.

Se inciampando dovessi rovesciare le tempere che porto in mano creando un effetto artistico particolare sul pavimento, nessuno dubiterebbe probabilmente che la combinazione di colori così ottenuta sia protetta dal diritto d’autore. E lo stesso dicasi se cadendo per terra, uno smartphone scattasse inavvertitamente una foto generando un risultato artistico nuovo. Ma che differenza c’è tra creare un’opera involontariamente, addirittura per errore, e farla creare da una macchina intelligente? Nessuna.

Oltretutto ostacolare la tutela delle creazioni dell’intelligenza artificiale con i diritti IP potrebbe generare effetti indesiderati sotto altri profili, come già accennavo: si è osservato che negare per esempio accesso alla tutela brevettuale ai trovati dell’intelligenza artificiale significherebbe incoraggiarne lo sfruttamento in regime di segreto anziché favorirne la circolazione presso il pubblico assieme al sapere che vi sta alla base (i brevetti, si sa, sono protetti solo per 20 anni e a condizione che l’inventore descriva e pubblichi il proprio trovato), con tutti gli svantaggi che è possibile intuire per la collettività.

Con ciò, non voglio nascondere che vi siano alcuni temi che rendono poco intuitivo parlare di tutela delle creazioni delle macchine intelligenti. Si pensi all’individuazione del titolare del diritto (chi è l’autore del trovato creato artificialmente?) e alla definizione della durata dei diritti (quanto durano questi diritti?), almeno nell’ipotesi in cui la durata venga calcolata sulla vita di una persona umana – come è per il diritto d’autore. Ma non credo che l’esistenza di queste difficoltà – del resto superabili – possa opporsi, in principio, al riconoscimento di una tutela dei trovati artificiali tramite diritti IP.

Musica e intelligenza artificiale
Che ne sarà allora della musica? Software generativi di musica esistono da tempo, certamente da prima che il tema dell’intelligenza artificiale diventasse così attuale. La facilità con cui è però oggi possibile chiedere a una macchina di comporre musica originale rende la questione molto più delicata, se non vitale, rispetto al passato: e non soltanto per l’industria musicale.

Oltreoceano gli autori cinematografici hanno per esempio scioperato (anche) per evitare che i produttori si avvalessero dell’intelligenza artificiale per scrivere le sceneggiature dei film. Pare che un accordo sia stato raggiunto, vedremo, ma certamente questo sciopero denota come nel settore, non solo musicale, vi siano forti preoccupazioni legate al dilagare delle macchine intelligenti.

Tornando alla musica, qualora per esempio le discoteche e le emittenti televisive o radiofoniche o i servizi OTT dovessero iniziare ad avvalersi soltanto di prodotti generati dall’intelligenza artificiale, e questi prodotti risultassero veramente non protetti dal diritto d’autore come è stato sostenuto, le collecting musicali vedrebbero i propri ricavi calare se non azzerarsi del tutto con danni incalcolabili per l’intero settore. A proposito di collecting: in Italia alcune di loro vivono in parte dei compensi dovuti dagli utilizzatori di opere audiovisive ai doppiatori, ma l’intelligenza artificiale potrebbe presto rendere superfluo il lavoro umano anche nel doppiaggio, come è accaduto in passato per i rumoristi il cui contributo è stato soppiantato dalla generazione digitale dei suoni.

Ma veramente arriveremo a questo punto, al punto cioè di ascoltare solo musica e di fruire solo di prodotti culturali realizzati dalle macchine intelligenti e di vedere così scomparire la creazione umana? Forse sì, almeno in parte. Non penso che la creatività umana sparirà del tutto, ma credo che verrà progressivamente affiancata da quella artificiale: da un lato per ragioni di opportunità (usare una macchina costa meno e i tempi della creazione sono molto più contenuti) e dall’altro lato per ragioni culturali (negli anni le nuove generazioni si abitueranno sempre di più all’uso delle macchine intelligenti nella loro vita quotidiana).

Ed è proprio per questo che arroccarsi su pregiudizi e vecchie classificazioni dogmatiche e considerare in particolare i risultati dell’intelligenza artificiale non proteggibili dalla disciplina della proprietà intellettuale, quando potrebbe benissimo valere già oggi il principio opposto, rischia di danneggiare l’intera industria culturale anziché fare il suo gioco. Ben venga allora la tutela d’autore, per esempio, della musica «artificiale»: ci sarà pur sempre una persona fisica a cui ricondurre i risultati creativi artificiali e se ne si vogliono sfruttare i diritti questa persona andrà in qualche modo remunerata, attraverso la sua collecting di riferimento o in altro modo.

Vi è comunque un cambiamento, secondo me interessante, che il dilagare dell’intelligenza artificiale potrebbe portare nell’industria musicale (ma non solo): il ribaltamento dei rapporti di forza tra gli autori e gli artisti esecutori, oggi molto sbilanciato a favore dei primi per ragioni storico e culturali risalenti al secolo scorso. Basterebbe guardare ai fatturati di Siae (da un lato) e quelli di Scf e delle altre collecting dei fonografici e degli artisti musicali (dall’altro lato) per rendersi conto di quali siano i valori in gioco.

La creazione di musica artificiale potrebbe ribaltare questa situazione e portare a una progressiva riduzione del peso della componente «autorale» (mi sia consentito il termine), alla fine generata dalle macchine, a favore di quella artistica, almeno fintanto che vi saranno artisti umani e non robot ad eseguire le composizioni musicali. Del resto, la tendenza a rafforzare l’identità e il valore della componente artistica rispetto a quella «autorale» mi pare un trend in atto da tempo non solo nell’industria musicale e a cui ho sempre guardato con interesse.