Difficile ritrovarsi a un concerto in cui tra il pubblico c’è immensa emozione ma sul palco ce n’è persino di più. Impensabile che possa succedere quando a esibirsi c’è un signore di 79 anni che fa musica a livello professionale da 56 e ha venduto 250 milioni di dischi partendo da un’epoca in cui, per comprarne uno, dovevi metterti il cappotto e uscire di casa.
Succede a Pompei, nel Teatro Grande degli Scavi, con Nick Mason che torna a calcare gli stessi laterizi che furono il set di «Pink Floyd: Live at Pompeii», concerto senza pubblico del 1971 divenuto un anno più tardi mitologico rockumentary. Non è il primo ex Pink Floyd a tornare a esibirsi a Pompei, non è neanche il primo a essere insignito della cittadinanza onoraria (nel 2016 gli stessi onori toccarono a David Gilmour) ma possiamo dire, senza timore di essere smentiti, che tra i due è quello che ha vissuto con maggiore coinvolgimento la circostanza.
L’autoironia ce l’ha da sempre, lo sguardo distaccato pure – altrimenti non sarebbe sopravvissuto, schiacciato tra il bolscevico e il menscevico del rock – e adesso ha pure l’età in cui, come diceva Jep Gambardella, non hai più tempo per fare le cose che non ti piacciono. E allora fa soltanto quello che gli piace: s’è inventato il progetto Nick Mason’s Saucerful of Secrets con il quale porta in giro per il mondo il repertorio dei primi sette album floydiani, quelli di prima di «The Dark Side of The Moon» e della fama mondiale. Si diverte tantissimo a suonare il sé stesso di quando aveva 23 anni. E non c’è modo migliore per presentarsi davanti a 2.200 adepti del culto pompeiano. Gilmour nel 2016 fece due date (bellissime) del «Rattle That Lock Tour», Mason officia i misteri della psichedelia col rispetto che i fedeli pretendono.
Si parte con «One of these days», che del «Live at Pompeii» fu un po’ la sigla, e Nick svetta dietro la doppia cassa con in testa un cappello da cowboy. «Stasera sono molto emozionato», dirà un minuto più tardi. «Suono di nuovo a Pompei dopo più di 50 anni, sono diventato cittadino onorario, ho portato con me mia moglie, i miei figli e i miei nipoti perché assistessero a questo momento. Ho messo lo stesso cappello del film. Purtroppo non ho conservato i baffi». Sembra una battuta, ma è una dichiarazione d’intenti.
Il set prosegue con una spigolosa versione di «Arnold Layne» dominata da Gary Kemp, già chitarrista degli Spandau Ballet e qualche volta attore, bravissimo nel ruolo di Syd Barrett. La lezione acustica di «Fearless» suona ancora molto attuale, mentre le svisate di «Obscured by clouds» ci riportano a un’epoca in cui eravamo tutti più liberi, personale degli Scavi di Pompei compreso. «Candy and the currant bun» si risolve nell’urlo liberatorio «Let’s roll another one» e sugli spalti del Teatro Grande si respirano aromi che non sono esattamente quelli del pomodorino del piennolo. Lo scherzo di «Vegetable Man» precede di poco la mini-suite di «Atom Heart Mother», aperta e chiusa dalla ballad watersiana «If».
Poi Guy Pratt, bassista e sesto Pink Floyd de facto («Una delle tre persone ad aver suonato per tre volte a Pompei», dirà di sé stesso), si prende il centro la scena omaggiando prima Richard Wright con «Remember a Day», quindi facendo la parte di Roger Waters in «Set the controls for the Heart of the Sun», una delle vette del «Live at Pompeii» del ’71. Memorabile la gag della finta telefonata di Roger con cui Mason introduce la canzone.
La seconda parte dello show parte ancora una volta nel segno del Pifferaio: «Astronomy Domine» con Pratt e Kemp che armonizzano visioni di viaggi interstellari ad alto tasso di principio attivo. Il rock quasi hard di «The Nile Song» regala la ribalta a Lee Harris, virtuoso della chitarra elettrica che abita il corpo di un geometra del Catasto. La parentesi di «Obscured by Clouds» («Burning Bridges» e «Childhood’s End») porta dritta all’apice dello show: prima i miagolii barrettiani di «Lucifer Sam», poi una monumentale «Echoes», il pezzo che più di tutti era il «Live at Pompeii», mantecata dalle tastiere di Dom Beken. Non può che finire con una standing ovation. Di più: due standing ovation. Di più: il pubblico degli spalti scende le gradinate e si piazza sotto al palco, come fossimo alla Queen Elisabeth Hall per i Games for May.
Non è un caso che il set dei bis si apra con «See Emily Play», il pezzo che fece capire alla Swinging London chi erano i Pink Floyd prima del rumorismo di «Saucerful of Secrets» e di una versione sospesa di «Bike». Perché non c’è un finale perfetto per una serata del genere. Una serata del genere non può finire.