Ai tempi del liceo, eravamo parecchio affascinati dalla contrapposizione tra gli storici che sostenevano che la storia la fanno i grandi uomini e quelli che obiettavano che la storia non è altro che il prodotto dell’azione delle persone comuni.
Non per altro: all’epoca pensavamo alla musica 24 ore su 24 e, nel nostro piccolo, ci chiedevamo: e se a fare la storia del rock in realtà fossero stati i turnisti? Della serie: quanto della bellezza di «Don’t let me down» dei Beatles sta nel tocco di Billy Preston al piano Fender? Cosa sarebbe «Brown Sugar» dei Rolling Stones senza l’assolo di sax di Bobby Keys? E «The Great Gig in The Sky» dei Pink Floyd senza i vocalizzi della prodigiosa Clare Torry? Potremmo continuare per ore, sempre a sostegno della tesi dell’imprescindibilità di alcuni sessionmen e alcune sessionwomen.
Pensieri in libertà che ci sono tornati in mente venerdì 21 aprile, quando al Teatro Villoresi di Monza abbiamo assistito a «PP50 – The Sessionman», show tutto incentrato sui 50 anni di carriera di Phil Palmer, uno trai maggiori turnisti della storia del rock, a cavallo tra Inghilterra, Stati Uniti e Italia.
Un predestinato: figlio della sorella di Ray e Dave Davies (altrimenti noti come The Kinks), cominciò come loro roadie. Poi ha prestato la chitarra a Iggy Pop in «Nightclubbing», obbedendo alle criptiche direttive di David Bowie versione produttore. Poi ha svisato in «Con il nastro rosa» di Lucio Battisti. Poi ha guardato le spalle a Eric Clapton ai tempi dei tour mondiali vestiti Versace, Knebworth compreso. Poi ha fatto da spalla a Mark Knopfler nei Dire Straits. E qui, da noi, ha suonato anche in «Strada facendo» di Claudio Baglioni, accompagnato Renato Zero, duettato con Pino Daniele.
«PP50 – The Sessionman», spettacolo prodotto da We4Show, è un godibilissimo viaggio attraverso tutto questo: Phil Palmer ha una band italiana ad accompagnarlo nelle varie «You Really Got Me», «While my guitar gently weeps» e «Money for nothing». E un salotto nel quale raccontarsi, rispondendo alle domande di Paola Maugeri davanti a un bicchiere di whisky.
Un fiume in piena di aneddoti sulla golden age del rock, come le corse in moto di Bonzo Bonham sul tetto di un hotel californiano o la volta in cui suggerì gli accordi a George Harrison. Poi, ovviamente, l’amicizia con il produttore italiano Fabrizio Intra di Columbia Records e con i colleghi sessionmen Steve Ferrone, Paul Carrack, Ruper Hine, Tony Levin e Ruper Hine. Insieme, nel 1993, fondarono una band chiamata Spin 1ne 2wo e pubblicarono un album omonimo nel quale re-intepretavano riarrangiandoli superclassici del rock come «All Along the Watchtower». Anche quella fu un’idea di Fabrizio Intra. Quando Phil a Monza ha suonato «Can’t find my way home» dei Blind Faith, pezzo forte di quel progetto, ci siamo ricordati che quell’album lo comprammo il giorno stesso in cui uscì. Erano i tempi del liceo, quando ci interrogavamo su se la storia del rock la fecero le rockstar o i turnisti. Quel disco ce l’abbiamo ancora, il dubbio pure.