Ha ancora senso parlare di generi musicali, nell’epoca delle playlist e della riproducibilità della musica sulle piattaforme di straming? Ne abbiamo discusso con Melanie Parejo, head of Music Sud e Est Europa Spotify.
Quanto sono stati importanti, in questi anni, i generi musicali nell’affermazione del modello di business di Spotify e dello streaming più in generale?
Dai primi giorni, i generi musicali sono stati un principio organizzativo e uno strumento pratico per il settore musicale. Tuttavia, stiamo notando che in tempi recenti la musica si sta muovendo sempre più verso una modalità ibrida di consumo di questa arte. Sia in termini di domanda che di offerta. Sul lato della domanda, gli utenti si stanno orientando verso confini più sfumati e meno circoscritti del concetto di identità, che spesso e tuttora è definito anche da gusti e generi musicali. Dall’offerta, perché, sebbene un particolare genere sembri essere uno strumento di marketing ancora molto utilizzato, un numero crescente di artisti sta cercando di uscire da questo perimetro. E lo streaming ha giocato un ruolo preponderante in questo senso. Infatti, da quando Spotify è entrata nella scena musicale, i generi hanno subito un nuovo stravolgimento. Così come la catalogazione stessa della musica. Il “modello playlist” introdotto dalla piattaforma non si basa più esclusivamente sul genere musicale, ma piuttosto sullo stato d’animo, le “vibes”, i luoghi, o le attività svolte. Ed è un modello più in sintonia con chi la musica la ascolta davvero. Alcune playlist curate editorialmente da Spotify hanno spesso un prerequisito di genere, ma altrettanto spesso sono esperienziali. Sono l’espressione di ciò che gli utenti desiderano effettivamente. Questo ci fa capire come il genere non sia più un principio regolatore fondamentale. Non c’è più un genere fisso a caratterizzare la playlist, ma si tratta piuttosto di avere un insieme di canzoni che creano un’esperienza soddisfacente per l’utente. La catalogazione dei generi è oggi meno importante dell’identificazione e del riconoscimento di una cultura, di un movimento, di una scena. Ed è quello che è successo con la playlist Zona Trap, una delle playlist più ascoltate in Italia e la prima per quanto riguarda l’hip-hop. Che ora è Street Culto.
Sono più affezionati al concetto di generi gli artisti, le case discografiche, le piattaforme di streaming o il pubblico?
Assegnare un genere musicale a un determinato artista, a un album o a una canzone è un processo duplice, che parte dalla volontà e dall’anima degli stessi, e dall’esterno. Spesso è anche la comunità dei critici, dei riconoscimenti – si pensi ai Grammy Awards – e della musica in generale a riconoscere e “assegnare” un determinato genere, che non è mai fisso di per sé. Un genere musicale è dinamico per natura, nasce da una serie di aspettative e ricorrenze, dal contesto culturale e da una fortissima componente estetica che trascende l’arte e che, a un certo punto nel tempo (le caratteristiche più significative di un genere vengono sempre percepite e identificate dopo che si sono effettivamente verificate), vanno a creare quel particolare genere. Quindi, per definizione, cambia, cambiano le ricorrenze e cambiano le aspettative, che non si esauriscono propriamente nel significato artistico, ma che a volte sono intrise di ideologie e stati d’animo (vedi i generi soul o urban). È difficile immaginare un mondo musicale senza generi; tuttavia, il problema sorge quando c’è uno scostamento tra ciò che l’artista ritiene e ciò che “l’esterno” decide. Il genere era uno strumento pratico per organizzare i negozi di dischi e programmare le stazioni radio, ma sembra improbabile che rimanga tale in un’epoca in cui tutta la musica sembra essere un ibrido e gli ascoltatori non sono più incoraggiati (o incentivati) a scegliere una singola area di interesse.
Considerando la direzione in cui stanno andando le produzioni musicali, ha ancora senso parlare di generi?
Non la metterei in questi termini. I generi musicali, ancora oggi, rappresentano per tutti noi, e non solo per gli addetti ai lavori, degli strumenti mentali che aiutano a stabilire dei confini. Sono come delle euristiche. Naturalmente, i tempi stanno cambiando e ci sono anche altri strumenti che ci aiutano in questo senso e che stanno modificando un po’ questo concetto. E questo si vede soprattutto nelle nostre playlist algoritmiche.
Questo è il caso in cui né gli editori né Spotify prende decisioni su come la musica debba essere organizzata o presentata, perché l’intelligenza artificiale del servizio è semplicemente reattiva. Sono gli utenti a prendere le decisioni. Si tratta, infatti, di avere un’intera serie di canzoni intrecciate insieme per soddisfare un particolare utente. È l’utente a definire cosa ha senso in una determinata playlist.
Quali sono le strategie lanciate di Spotify per andare nella direzione del “superamento dei generi” proposto da diversi artisti soprattutto nel mondo urban?
In Spotify, prendendo ad esempio la playlist Street Culto, ci stiamo sempre più spostando verso un modello a-genere. Sulla scia di questo cambiamento “a-genere”, si è deciso di eliminare il riferimento al genere nel caso di Trap Zone e di chiamarla Street Culto, poiché il suo pubblico, in particolare la Gen Z, non riflette più il tradizionale approccio top-down che la definisce. Una buona parte dei rapper della Gen Z sono figli di coppie multietniche e di famiglie di immigrati, il che significa che c’è un senso più forte di eredità culturale condivisa e un ampio uso del multilinguismo. Inglese, francese, arabo, spagnolo, italiano: tutte queste lingue si incontrano nelle scene di strada contemporanee dell’Ue, Italia compresa. Così, Street Culto ha una nuova identità che riesce a descrivere e abbracciare un’intera cultura. Suona come un vero e proprio marchio e trasmette l’idea della cultura di strada, un topos che è nel Dna stesso della musica rap. Essere inclusi nella playlist significa ottenere un riconoscimento ufficiale, entrando a far parte di un gruppo di artisti che meglio rappresenta la cultura di strada contemporanea. Tutto questo non implica necessariamente che si smetta di riferirsi a loro con le categorie e i nomi abituali, ma gli artisti e gli utenti della Generazione Z, i più aperti di tutti, stanno ribaltando il concetto di genere musicale come qualcosa di rivolto al passato e stanno spingendo la musica verso una creolizzazione ancora difficile da definire.
Che aspettative da parte di Spotify ci sono rispetto a queste nuove iniziative?
Certamente gli utenti della Generazione Z, i più aperti di tutti, stanno capovolgendo il concetto di genere musicale come qualcosa di rivolto al passato e stanno spingendo la musica verso una creolizzazione ancora difficile da definire. In un certo senso, stanno allargando ed espandendo i confini e gli spazi. Proprio come nel caso di Street Culto, che descrive l’abbraccio di un’intera cultura, continueremo ad applicare lo stesso approccio ad altre playlist che saranno sempre più espressione di stati d’animo, culture ed esperienze.