Vi ricordate di Rodriguez? No, non James Rodriguez, il virtuoso del calcio colombiano che sta svernando a Doha, e nemmeno il Rodriguez del tormentone «Rodriguez, señor» da «Per qualche dollaro in più». Parliamo di Sixto Rodriguez, l’unica rockstar a sua insaputa della storia del rock, la cui vicenda è magistralmente raccontata nel documentario «Searchin’ for Sugarman» di Malik Bendjelloul, premio Oscar nel 2013. Ci sono due buone notizie per Sixto Rodriguez: la prima è che il 10 luglio compirà 80 anni e non era affatto scontato, date le innumerevoli vicissitudini patite in vita; la seconda è che, sulla soglia degli 80 anni, ha finalmente vinto la battaglia legale per riappropriarsi dei diritti sul suo songbook. Nonostante ciò, Rodriguez resta umile e continua a vivere nella sua modesta casa di Detroit.
Rodriguez è quello che si potrebbe definire un perdente «di successo». Soltanto dopo lo straordinario exploit del film di Bendjelloul ha avuto la fama che meritava. Il film è bellissimo: recuperatelo, se non lo avete mai visto. Trovatela voi una trama migliore: musicista professionista per un periodo molto circoscritto della sua giovinezza, Rodriguez negli Usa è rimasto uno zero assoluto in quanto a vendite di dischi, tanto da tornare presto a fare il muratore, lavoro che svolgeva prima degli esordi. In Sudafrica però, dove lo credevano morto in circostanze tragiche, diventava una stella di prima grandezza del firmamento musicale, alla stregua di Beatles, Rolling Stones e Jimi Hendrix. Il tutto a sua insaputa, dal momento che i suoi dischi da quelle parti uscivano illegalmente. Ma andiamo con ordine.
Di famiglia messicana, Sixto Diaz Rodriguez arriva da Detroit, città di grande tradizione musicale: è la patria della Motown, più avanti addirittura culla delle esperienze proto-punk di Stooges e MC5. Tanta roba che però non ha nulla a che fare con i gusti musicali del Nostro, cresciuto a pane e Bob Dylan. L’influenza dylaniana, mescolata a suggestioni psichedeliche, è perfettamente riconoscibile in «Cold Fact», suo primo album del 1970 contenente gemme del calibro di «I wonder», «Cucify your mind» e appunto «Sugar Man», lettera d’amore di un junkie al suo pusher. L’etichetta è la Sussex Records, label losangelina che ha un solo asso in scuderia: Bill Withers, quello di «Ain’t no sunhine». Ancora una volta uno che non c’entra niente con il mondo di Rodriguez. Le vendite difettano: nel tentativo di rilanciarle, il Nostro si mette in viaggio per i locali di mezza America, ma non servirà. Arriva una seconda chance l’anno successivo: il disco si chiama «Coming from reality» e anche stavolta contiene momenti di grande intensità, come «Cause», «Halfway up the stars» e «Climb up on my music». È un secondo nulla di fatto, la Sussex non rinnova il contratto discografico a Rodriguez e quest’ultimo lascia la musica. Farà il muratore, il sindacalista, si candiderà quindi al consiglio comunale di Detroit, strade molto diverse da quelle che i due suoi unici dischi avrebbero lasciato intuire.
Fin qui quello che succede negli States, poi c’è il Sudafrica. Qui «Cold Fact» arriva nei primi anni Settanta grazie a chissà quali strani giri oscuri che hanno a che fare con la Sussex, viene trasmesso a ripetizione dalle radio, ha un successo clamoroso, anche perché i testi di Rodriguez si prestano a interpretazioni anti-apartheid. Non sono pochi i musicisti sudafricani che indicano il folk singer di Detroit tra le proprie principali influenze. Di Rodriguez però non si sa niente: su di lui circolano curiose leggende, secondo le quali si sarebbe suicidato, forse dandosi fuoco sul palco o puntandosi una pistola alla tempia durante un concerto. Tutto questo fino a un’inchiesta giornalistica che farà giustizia della sua arte e riporterà il cantautore, negli anni Novanta, di nuovo sulle scene, a partire dal tour sudafricano che lo vedrà esibirsi, incredulo, davanti a folle oceaniche. Fino al documentario premio Oscar che ha fatto sì che il grande pubblico si appropriasse finalmente di un gigante sottovalutato. Perché la sua storia ci appassiona così tanto? Forse perché c’è un pezzo di Rodriguez in ognuno di noi: è ciò che avremmo voluto essere ma non ci siamo riusciti. E, in fondo, speriamo che qualcuno là fuori se ne accorga. Presto o tardi che sia.