Concedeteci una piccola pausa pensosa, una breve vacanza dai nostri amati ragionamenti numeristici sulle sorti dell’industria musicale. Proviamo a parlare di «contenuti»: parliamo di musica indipendente. Negli anni Novanta in molti coltivavano sogni di rock and roll e per ragioni diverse, qualcuno ce la faceva, i più no. A Milano come a Roma, a Napoli come a Torino o dove vi pare. I più che non ce la facevano erano sempre pronti a sorpassare a sinistra quel qualcuno cui la sorte era girata bene: ce le ricordiamo le noiosissime tirate sulla coerenza indie tradita, sulla presunta coscienza sporca di chi si vendeva al mercato. Si parlava sempre senza cognizione di causa, spesso con superficialità, mai con l’onestà intellettuale del «se capitasse a me». Ti bastava una «svolta pop» (citiamo espressione dell’epoca) per finire nel tritacarne. Come saremmo sembrati strani agli occhi di uno che oggi ha i nostri anni di allora e bazzica quel mondo, a ragionar del rischio concreto di sporcarsi di mainstream. Poi ti trovi un giorno all’Arengario di Monza per la (bella) mostra curata da Giulio Ceppi e Luigi Pedrazzi «City of Guitars» (in corso fino al 2 luglio) e assisti a un dialogo tra due personaggi che ebbero un ruolo attivo nell’indie italiano di quegli anni, Marco Pancaldi e Livio Magnini, «Le chitarre dei Bluvertigo». Momento amarcord? Macché: quattro occhi per due punti di vista un po’ cinici ma tutt’altro che banali su quella che era la musica indipendente italiana di venti e più anni fa, quella che sarebbe potuta diventare e quella che alla fine è oggi. Pancaldi il chitarrista originario della band monzese per eccellenza, quello che con l’Ibanez fosforescente ha contribuito in maniera determinante alla genesi del suo sound per poi uscirne alla vigilia del secondo album, quando la strada a chiunque altro sarebbe sembrata in discesa («Sentivo che non era quello che volevo fare»), ritrovarsi turnista (Franco Battiato, Nada), ritirarsi come Achille sulla collina a fare il liutaio («Amo il mio strumento, amo troppo la musica e, considerando quello che oggi è diventato il mercato, preferisco starne alla larga»). Magnini che entra nella band da fonico e si sente presto chiedere se è in grado di rifare alla chitarra Pancaldi perché deve prenderne il posto, Magnini che con la Parker fa nel gruppo «quello che di solito fa il bassista: una specie di tappeto» perché in quel gruppo il bassista è evidentemente troppo ingombrante. Eggià, il convitato di pietra della serata non può che essere lui: Marco Castoldi in arte Morgan, nel bene e nel male band leader, oggi «personaggio televisivo, di gossip» (lo definisce Pancaldi), complicatissimo da gestire, per non dire ingestibile. «Una band – racconta Pancaldi – per funzionare deve essere anche una famiglia e un’azienda. Quando me ne andai il sogno degli altri era farsi strapagare per starsene tre mesi in sala d’incisione come avevano letto in chissà quale libro a proposito dei Pink Floyd». Fortuna che si suona dal vivo «e le code strumentali ai nostri pezzi live – sottolinea Magnini – erano il momento in cui la musica vinceva. Non abbiamo mai litigato sul palco, reunion compresa, fuori sì. Sul palco eravamo contenti come bambini». La sensazione che hai trovandoteli davanti è quella di avere a che fare con persone di buonsenso, antidivi, gente che serve la musica, non se ne serve. Il loro giudizio, sia sull’indie che sul mainstream italiano di oggi, è impietoso. Magnini, dopo una battuta su Manuel Agnelli con il quale non condivide (e usiamo un eufemismo) il disprezzo per Duran Duran, racconta: «Ho sentito paragonare Thegiornalisti ai Bluvertigo. Credo che ci sarebbe bisogno di più esami audiometrici in giro». Questa è l’epoca in cui «ha successo un pezzo reggaeton e allora tutti a fare pezzi reggaeton». Pancaldi si concentra su Francesco Gabbani: «Il ragazzo mi sta simpatico, ho scoperto che anni fa andavo a comprare le corde per la chitarra da suo padre, ma ho suonato con Battiato e sentire il paragone tra i due mi fa veramente sorridere». Pancaldi e Magnini (nella foto tratta dal profilo Facebook Prospettiva Bluvertigo) che convergono su un punto: «I Bluevertigo nacquero per fare in italiano la musica che avremmo voluto sentire ma nessuno ti lasciava fare». Lo spirito dell’indie italiano era esattamente questo. Vent’anni fa o giù di lì.
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