Caro David Jon Gilmour,
ci diamo del tu? Massì, dai: dopo tutto da ieri siamo in un certo senso concittadini. Nel senso che tu hai ricevuto la cittadinanza onoraria di Pompei, io a Pompei ci sono nato, a 500 metri dal posto in cui suonasti 45 anni fa e nel quale tornerai a suonare stasera. Dopo tutto ti conosco da una vita, tu al contrario non mi conosci, neanche la leggerai mai questa lettera aperta e la cosa si può dire che mi sollevi un po’. Dopo tutto io da Pompei me ne sono andato e neanche troppi anni fa e nemmeno definitivamente (parafrasando Zlatan Ibrahimovic: puoi togliere il pompeiano da Pompei, ma non Pompei dal pompeiano), tu invece te ne andrai dopodomani ma ti porterai «questa esperienza dentro per tutta la vita», così almeno dichiari. Ti scrivo dalla libreria Feltrinelli di Firenze Santa Maria Novella, mentre in airplay c’è Rick che svisa su «The Great Gig in the Sky». Tu guarda le coincidenze, certe volte. Ti scrivo mentre aspetto il treno che mi riporterà a Pompei per una notte, la tua notte. Ti scrivo per raccontarti, ora che sei pompeiano onorario, cosa significa essere nativo pompeiano. Di pompeiani ne avrai incontrati parecchi, in questi giorni, ebbene sappi che se ne conti cinque, in quei cinque troverai espressione di tre partiti, sei correnti, 15 sottocorrenti e 24 orientamenti di pensiero diversi. Siamo fatti così: diciamo e contraddiciamo. Un po’ per natura, un po’ perché per troppo tempo non abbiamo avuto molto da fare. Sulla natura, ti dico subito che la nostra, per paradosso, è una città senza storia. La città moderna ha un centinaio d’anni, troppo giovane per essere erede consapevole di quella sepolta dall’eruzione del 79 d.C. Troppo vecchia (dentro) per interpretare con logiche nuove il proprio impareggiabile patrimonio storico-archeologico. Quest’ultimo ce lo siamo trovati in dote nostro malgrado e, nella migliore delle ipotesi, lo abbiamo usato come piazza di spaccio per la solita paccottiglia kitsch, il fauno di bronzo ossidato venduto per autentico a qualche turista allocco, la mattonella col Priapo che fa sempre la sua porca figura. Siamo il tizio che sta seduto sul tesoro e non trova di meglio da fare che lamentarsi di quanto la seduta sia scomoda. Per troppo tempo non abbiamo avuto molto da fare e ci siamo lamentati perché non c’era molto da fare. Per troppo tempo non è successo niente e ci siamo lamentati perché non succedeva niente. Abbiamo trovato le giustificazioni più singolari al fatto che non succedeva niente. «È colpa della soprintendenza e del comune che non si parlano», si diceva. «È colpa della chiesa che, alla faccia dei Patti Lateranensi, quaggiù non ha mai smesso di esercitare il suo potere temporale», si obiettava. «È colpa dei pompeiani», si conveniva. Adesso, intorno al patrimonio storico-archeologico di cui sopra, qualcosa si è messo in moto. Qualcosa sta succedendo. E ti riguarda. E ci riguarda. E il pompeiano che fa? Si lamenta. Perché si sta svendendo il patrimonio strorico-archeologico, perché si mette a rischio l’integrità del sito, perché il biglietto costa troppo, perché «troppo traffico» e «sai quanta sporcizia dopo», perché «se è mancata la corrente durante le prove, figurati cosa succederà durante il concerto», perché tu hai un bel po’ di soldi in banca e allora, che diavolo, un bell’obolo per Pompei che ti costa! Per troppo tempo abbiamo sognato qualcosa che ci restituisse un pezzo del «Live at Pompeii» del 1971 e, adesso che arriva, l’idea stessa che si voglia speculare su quanto di irripetibile accadde 45 anni fa ci fa inorridire. «Non c’è più lo spirito degli anni Settanta», dicono alcuni. E meno male, mi viene da aggiungere. Non te la prendere: siamo fatti così: un po’ lunatici, un po’ schizoidi, parecchio acidi e tu di personaggi così certamente ne hai conosciuti. Un po’ «Dogs», parecchio «Sheep», per niente «Pigs», perché i conti, quelli lì, al contrario nostro li sanno fare molto bene. Un po’ «numb», nel senso di tonti, ma comodamente tonti, assai «Comfortably numb». Lasciamo parlare, lasciamo lamentare. Perché… lo vedi? Gira e rigira posto migliore di questo non avreste potuto trovarlo. Quarantacinque anni fa, come oggi.
A stasera.
Money, it’s a gas!
Francesco