Fuma poco e ascolta i Byrds

Ci sono band che ami perché sono sempre state composte da quegli stessi quattro/cinque ragazzi, perché non c’è una sola uscita fuori posto lungo l’arco della loro carriera, perché possono essere durati tanto o poco ma quello che hanno fatto resterà per sempre. Poi ci sono band dalla formazione che cambia quasi ogni anno, se non addirittura ogni mese, dalla discografia che contiene qualche pezzo del quale faremmo volentieri a meno, dalla parabola imperfetta, proprio come sa essere imperfetta la vita. Le ami allo stesso modo, se non di più, perché pure loro hanno fatto la storia, nonostante tutto. E la storia fatta nonostante tutto ha qualcosa di eroico. I Byrds rientrano sicuramente nella seconda categoria. Hanno suonato insieme grosso modo dieci anni, dal 1964 al 1973, arco di tempo in cui si sono alternati nelle loro fila 11 musicisti. Non sono mai riusciti a mantenere la formazione invariata per più di quattro anni consecutivi. Hanno avuto alterne fortune con pubblico e critica, ma regalato all’umanità musica eccelsa. Ed esercitato un’influenza decisiva sulla storia della popular music.

Il libro di Carnevale e Galli
C’è un libro che fa al caso di chi fosse interessato a riscoprirne la parabola: «L’avventura dei Byrds. Epopea e mito del suono californiano» di Paolo Crazy Carnevale e Raffaele Galli, edito da Arcana (euro 23,50, pp. 336). Un volume nato intorno alla fanzine «Late for the Sky», scritto da collezionisti per chi, quando legge di musica, ha l’approccio da collezionista. Non vi aspettate dunque racconto romanzato o prosa a effetto: quello che troverete è un lavoro tecnico, un manuale d’istruzioni per l’uso, uno strumento d’orientamento, quasi una bussola per muoversi nell’intricato corpus byrdsiano scritta da chi, dagli anni Sessanta a questa parte, non si è perso un’uscita di Roger McGuinn e compagnia cantante. Un’opera divisa in quattro parti: la prima, più corposa, con approccio biografico; una seconda che unisce idealmente chi ha influenzato i Byrds (Bob Dylan) e chi ne è stato influenzato (Tom Petty); la terza che incrocia bibliografia e discografia; la quarta con la storia del gruppo attraverso le dichiarazioni di chi ne ha fatto parte.

La band delle band
Che, almeno in sei casi su 11, ha giocato un ruolo di primo piano dentro e fuori il gruppo. A partire da McGuinn, ideologo del jingle-jangle, pioniere degli assoli sulla Rickenbaker 12 corde, l’unico a meritarsi la fascia di capitano al braccio per come è rimasto fedele a un’impresa della quale, in un modo o nell’altro, è stato azionista di riferimento fino a che è durata. Quello che, sin dall’esordio di «Mr. Tambourine Man» (1965), ha chiaro in testa che l’arte dei Byrds (nella foto in formazione originaria) consiste innanzitutto nel tradurre Dylan nella lingua musicale dei Beatles. Poi c’è Gene Clark, il primo a sviluppare un prepotente talento compositivo, quello di «I’ll Feel a Whole Lot Better» e «Set You Free This Time» che partecipa a due dischi, poi si rifiuta di salire sull’aereo per i tour mondiali e va a farsene folk e country per i fatti suoi. Fonda Dillard & Clark, scrive pezzi magnifici come «She darked the Sun», escogita lavori solisti commoventi come «White Light» (1971). C’è David Crosby per il quale ti basta chiamare a testimone l’esperienza di Crosby, Stills, Nash e qualche volte Young o quel capolavoro metafisico che risponde al titolo di «If I could only remember my name» (1971). C’è Chris Hillman, frequentatore di circoli bluegrass, bassista e all’occorrenza mandolinista (o viceversa), figura chiave della stagione country rock che trova in Gram Parsons un fratello di latte, lo aiuta in quel colpo di stato armato di banjo e lap steel che ruota intorno a  «Sweetheart of the Rodeo» (1968), poi lo segue nell’avventura dei Flying Burrito Brothers, poi ancora se ne separa per dare manforte a Stephen Stills sul progetto Manassas, mentre Gram vola via per sempre sulle ali dei Fallen Angels. E c’è Clarence White, uno che ha suonato ovunque, semplicemente il più grande chitarrista della storia del country rock. I Byrds non sono stati una band, sono stati la band delle band.

Dagli Eagles ai Zen Circus
Quanto è lunga la lista degli eredi dei Byrds? Ci vorrebbe un libro a parte per mettere in fila gli artisti che, in maniera diretta o indiretta, hanno attinto alle loro acque: dagli Eagles ai Poco, dalla stagione del Paisley Underground all’alternative country, dai R.E.M. ai Wilco. La scena della West Coast e il suono californiano sono fatti della stessa materia di cui sono fatti i Byrds, come spiega bene l’ottimo documentario «From the Byrds to the Eagles», sfornato dalla Bbc nel 2007. Sono nella musica che ascoltiamo, talvolta senza che ne abbiamo piena consapevolezza, persino in cose distanti quasi 10mila chilometri dalla loro Los Angeles come gli Zen Circus di «Ragazza Eroina». Per molto tempo ci siamo riconosciuti nella parafrasi di un celebre verso di Pino Daniele: «Fuma poco e ascolta i Byrds». Adesso, causa l’età, abbiamo smesso di fumare. Eppure ci piace l’idea di trasformare quella stessa frase in un’esortazione: fumate poco e ascoltate i Byrds.