Di cosa parliamo quando parliamo di Gigi D’Alessio (e dei 20 milioni di dischi da lui venduti)

Gigi D’Alessio inteso come «frittata di maccheroni». Una chiave di lettura così intrigante per (provare a) spiegare l’ultimo grande neomelodico approdato al circuito mainstream e soprattutto le ragioni per cui nessuno ne parla bene ma tutti, loro malgrado, lo ascoltano poteva appartenere soltanto ad Angelo Carotenuto, brillante «intellettuale anti-intellettuale» prestato al giornalismo (essì: nel caso suo il termine giornalista sta stretto). Nell’ultimo post del blog «Il divano sul cortile» si è cimentato con una specie di fenomenologia del cantautore napoletano che tira in ballo il sociologo francese Pierre Bourdieu e il critico musicale canadese teorico della «Musica di merda» Carl Wilson. Il succo del discorso sta nell’accostamento di D’Alessio al celebre piatto della cucina napoletana che fu street food ante litteram:

 

 

«La frittata di maccheroni – scrive Carotenuto – deve la sua fortuna al fatto di essere un comodo piatto da asporto. La metti in borsa per andare al mare, alla gita di Pasquetta, la porti allo stadio. Ha una sua dignità. Eppure Tony Tammaro ne fece lo stesso un’icona trash in una delle sue canzoni più celebri. Ecco. Gigi D’Alessio sconta la sindrome da frittata di maccheroni di cui soffriamo quando non vogliamo essere assimilati al segmento sociale che a essa fa ricorso. La carta imbrattata, le dita unte, il filo di pasta che s’incastra fra i denti. Non è la frittata di maccheroni a dispiacerci, ma il clima che evoca, grasso, oleoso. Non è Gigi D’Alessio a non piacerci, Gigi D’Alessio neppure lo ascoltiamo davvero, Gigi D’Alessio non deve piacerci, perché non ci piacciono le persone a cui lui piace. Lo abbiamo reso sottocultura musicale per ragioni sociali».

 

 

Sottotesto del discorso di Corotenuto sembra essere che, con tutta questa spocchia a buon mercato, rischiamo di perderci qualcosa perché «Gigi D’Alessio – chiude il suo post – ha studiato pianoforte e composizione, e pure da un ottimo maestro. Dunque conosce Chopin meglio di tutti noi».

 

Siccome D’Alessio, per quanto possa piacere o meno, rappresenta un fenomeno da 20 milioni di copie vendute, un disco di diamante e oltre cento dischi di platino, siccome quando si muove – che sia sul palco, in sala d’incisione o in Tv – raramente sbaglia un colpo (si veda la blind audition da finto concorrente di The Voice of Italy che, mercoledì scorso, è valsa a Rai 2 un 14,74% di share) e siccome da più di 20 anni è un fenomeno del music business, pure Money, it’s a gas! prova a mettere in fila un po’ di considerazioni.

 

Uno: Gigi D’Alessio è un intellettuale organico di quello che una volta si sarebbe chiamato sottoproletariato urbano di Napoli. Per questo ha ragione Carotenuto a dire che c’è una parte di pubblico (spesso e volentieri a Napoli) che lo detesta per non sentirsi accomunato a quel mondo. Due: Gigi D’Alessio da almeno 16 anni ha smesso di essere un fenomeno local di Napoli. A Milano come a Roma ci sono radio che trasmettono suoi brani e gente che ne compra l’opera. Che il motivo stia nella diaspora dei napoletani in giro per lo Stivale? Non basta: la patente di credibilità che lo show-biz attribuisce a D’Alessio offrendogli continue apparizioni televisive e soprattutto il fatto che una major – la Sony – se lo tenga ben stretto in scuderia hanno motivazioni più profonde. Del tipo: Gigi, che giovanissimo assieme alla promessa calcistica mancata di Benny Carbone cantava «Forza Napoli», corrisponde probabilmente ai canoni che i non napoletani utilizzerebbero per descrivere la napoletanità stessa. Tre: a Napoli, come nel resto d’Italia, dovranno pur esserci persone cui D’Alessio non piace e non perché sia l’intellettuale organico del sottoproletariato napoletano, quanto perché l’offerta musicale che propone – questo latin pop che oscilla tra melanconie alla Claudio Baglioni e melodie cantate «a fronn’ ‘e limone» – non sembra affatto memore del fatto che il Nostro «ha studiato pianoforte e composizione, e pure da un ottimo maestro. Dunque conosce Chopin meglio di tutti noi». È vero, caro Angelo: il passo dal successo al prestigio può essere molto breve, quanto l’endorsement di una autorità culturale che dalla sera alla mattina da truzzo ti trasforma in cool, come fu per il Nino D’Angelo sdoganato da Goffredo Fofi. Ma prima che per D’Alessio ciò avvenga sarà necessario un «salto di registro» nella sua produzione, qualcosa che, come accadde per il Caschetto Biondo, abbia il gusto o almeno l’ambizione dell’arte. Fino ad allora ci sarà sempre una nutrita porzione di pubblico cui la frittata di maccheroni non piace. E non per «la carta imbrattata, le dita unte» e «il filo di pasta che s’incastra fra i denti».

 

GIGI DALESSIO

Gigi D’Alessio a The Voice of Italy