Tra i concerti che, negli ultimi giorni, stanno facendo più discutere c’è sicuramente quello degli Idles all’Alcatraz di Milano organizzato da All Things Live, salutato un sold out, recensioni entusiastiche e post molto accorati da parte di chi c’era e chi avrebbe voluto esserci. Noi avremmo voluto esserci e allora ce lo siamo fatti raccontare da Dario Aquaro, collega del Sole 24 Ore appassionato della band, in questa eccezionale recensione.
Lo chiamano post-punk, post-post-punk. Impeccabile la consecutio, meno l’etichetta (per quel che vale). Gli Idles puntano a essere tanto post da andare oltre, correre per levarsi di dosso i marchi appiccicati negli anni, le definizioni, l’insofferenza di finire inquadrati solo in quella-cosa-là. E allora spiazzano con «Tangk», il fresco album uscito a febbraio, il quinto in sette anni. Un lavoro che i cinque da Bristol hanno prodotto con l’inglese Nigel Godrich (che significa Beck e soprattutto Radiohead) e l’americano Kenny Beats (per dire: l’hip hop di Vince Staples o Denzel Curry). Si sente: l’album conserva l’impronta del gruppo ma è più melodico, meno gridato, più synth. Un mondo musicale che si affina. Un passo avanti nel percorso di studio, che è partito dai suoni più hardcore (ma post, eh) di «Brutalism» nel 2017.
Quest’ultimo «Tangk» (onomatopea del suono secco della chitarra, ci dicono) è un disco d’amore, che parla d’amore come può farlo la band guidata dalla voce di Joe Talbot, che ha abituato a racconti di tormenti e sofferenze, drammi, rabbie, disagi e visioni sociali e militanza, di vita e quindi di politica.
Tutt’altro che indolenti gli Idles. E la traduzione sul palco lascia ancora una volta stupiti: i cinque sono animali da live, artisti pieni che riescono a fondere in uno spettacolo di due ore e oltre venti brani questo loro percorso musicale, innestando e integrando i nuovi pezzi senza creare (vistose) tiepidezze e anzi rilanciando. Anche quando sembra di rifiatare. Facile quindi che l’energia degli Idles abbia travolto quelle 3mila persone arrivate all’Alcatraz di Milano per l’unica tappa italiana del tour, rimettendo a posto anche i sopracciò di qualche fan «duro e puro», meno indulgente alle evoluzioni artistiche. Il live del 5 marzo ha scosso, esaltato e fatto pogare il pubblico di giovani, non giovanissimi, ex giovani e poco giovani, in una tensione ritmica costante.
La partenza è stata già un compendio: «Idea01», “placida” overture del nuovo album «Tangk», si risolve nella «Colossus» dell’album «Joy as an Act of Resistance» (2018); e alla nuova «Gift Horse» che apre le danze (e il pogo) segue «Mr. Motivator», canzone di «Ultra Mono» (2020), l’album che ha scalato le classifiche e portato la fama internazionale; e poi «Car Crash» del loro penultimo lavoro «Crawler» (2021), quando sono state avviate le sperimentazioni che oggi consolidano.
Ma il live, dicevamo. Il live è una sezione ritmica formidabile con Adam Devonshire al basso e Jon Beavis alla batteria, che prende e non molla più; è il muro di distorsioni creato dal chitarrista Mark Bowen, in rigoroso abito femminile, e da Lee Kiernan, che un-due-tre-via ed è già in stage diving con la sua chitarra. Il primo, non l’ultimo. Mentre tutto il pubblico ondeggia e davanti si fa mareggiata e tempesta, e per due ore non smetterà anche grazie a un’attenta costruzione della scaletta che lascia in coda pezzi come «Dancer» (recente collaborazione con gli Lcd Soundsystem), la scattante «Danny Nedelko» e l’inno antifascista «Rottweiler», quando Talbot finisce anche lui a picchiare sulla batteria insieme a Beavis.
Non c’è che dire. È certo affascinante vedere il contrasto tra i suoni potenti, il racconto di esperienze toccanti, l’impegno sociale da una parte, e l’autoironia dall’altra. Hammers and smiles, martelli e sorrisi, è la famosa sintesi di Talbot. Lo show è totale. E dalle canzoni passa agli slogan, uno su tutti, accompagnato dal grido di ceasefire now!: Palestina libera, viva Palestina. Il messaggio torna più volte, e d’altra parte la band già a novembre aveva firmato la lettera aperta che chiedeva il “cessate il fuoco” a Gaza, scritta dall’organizzazione The Peace and Justice Project dell’ex leader laburista Jeremy Corbyn. Palestina libera, viva Palestina: il pubblico (una grossa parte) apprezza e ricambia, mette il “mi piace” a questo post. Che come ogni slogan taglia con l’accetta.
La semplicità di ogni motto lanciato dal pulpito è sempre fragile in sé. Vero. Epperò qui il cronista si ferma e pensa ad altro: pensa che anche il 7 ottobre scorso c’era una massa di ragazzi e ragazze che ascoltava musica, e con la musica si divertiva, proprio come a Milano. Ma poi lì in Israele sono piombate le milizie del terrore di Hamas.
Dario Aquaro