Arriva un momento in cui fai un libro. Serve a mettere in fila quello che hai fatto, tirare una linea, lasciare un segno. Serve a raccontare chi sei. Nel caso di Renzo Chiesa – tra i più importanti fotografi di musica che abbiamo avuto in Italia, dagli anni Sessanta a questa parte – serve a raccontare «chi siamo noi e dove andiamo noi», direbbe Paolo Conte che Chiesa immortalò all’apice e che, con Chiesa, ha conservato un rapporto affettuoso, a quanto ci risulta: il rapporto dell’artista che riconosce un altro artista. Renzo Chiesa ha finalmente pubblicato un libro. O meglio: «il» libro che racconta, per immagini, la sua carriera, i suoi incontri musicali degli ultimi 50 anni. Che sono più o meno tutto quanto è accaduto d’interessante, intorno alla musica, negli ultimi 50 anni. S’intitola appunto «Cinquanta – 50 anni di ritratti della mia musica», esce per Vololibero (pp. 216, euro 40).
C’è un motivo su tutti per cui Renzo Chiesa è uno dei principali fotografi italiani di musica. Nel panorama dell’italico cantautorato non si contano molte copertine iconiche, ma tra queste c’è senza dubbio il primissimo piano della fronte di Lucio Dalla che guarda in alto, verso il basco di lana e gli occhiali di osso che indossò nel suo periodo migliore. L’album è «Dalla», anno di grazia 1980: quello di «Futura» e «Balla balla ballerino», per capirci. Renzo, cremonese di nascita e milanese d’adozione, 71 anni in larga parte trascorsi ai piedi dei palcoscenici rock o nelle cantine jazz, in una mano l’automatica, nell’altra l’obbiettivo. Ha fotografato tutti o quasi: dallo stesso Dalla a Giorgio Gaber e Fabrizio De André sul versante italiano, da Jimi Hendrix ai Rolling Stones, passando per Jethro Tull e Bob Marley su quello internazionale, fino a Bill Evans per il panorama jazzistico. «Ho fatto il fotografo rock – racconta Chiesa – per buona parte della mia carriera. La fortuna è stata che quegli anni coincidessero con la massima espressione del genere. E che le rockstar, all’epoca, non fossero inavvicinabili come sarebbero diventate a partire dagli anni Ottanta».
Il battesimo del fuoco, per Chiesa, fu il concerto di Hendrix al Piper. «Era il 1968, – ricorda – ero un ragazzino stregato da “Blow up” e mi portai dietro una Bencini 2, tutt’altro che una macchina professionale. Scattai senza flash, utilizzando le luci del palco». Ancora non lo sapeva, ma si trattava della genesi di una cifra stilistica, la stessa che caratterizzerà i lavori da professionista. Il resto lo avrebbe fatto la residenza scelta dai suoi genitori: «Andammo a vivere – spiega Chiesa – a un tiro di schioppo dal Palalido che all’epoca era per Milano ciò che la Royal Albert Hall era per Londra e il Fillmore East per New York». Fu lì che, nell’ottobre del ‘70, immortalò gli Stones freschi dell’arrivo di Mick Taylor. «Non mi perdevo un concerto e, intanto, l’archivio cresceva». Chiesa si ritrovò così a lavorare per le riviste di alcuni dei principali editori del periodo.
Il suo tratto più celebre, in ogni caso, è quello delle copertine. «La prima di una certa importanza – spiega – fu quella di “Un gelato al limon”, disco del grande salto di Paolo Conte». Correva l’anno 1979 e Chiesa fu invitato dalla Rca a recarsi al ristorante Brellin, in zona Navigli. «L’idea – dice il fotografo – era ricreare l’atmosfera del bar Mocambo, quel misto di Parigi, Sudamerica, pianura Padana, fumo di sigarette e improvvisazioni jazzistiche che rappresenta una costante della poetica di Conte, sin dal primo album». Perché il miracolo riuscisse bastarono lo sguardo pensoso dell’Avvocato al pianoforte, la posa plastica del contrabbassista Giorgio Azzolini e il broncio seducente di Silvana Casarotto, «una ragazza che lavorava all’ufficio stampa di Rca che si prestò come modella».
Quanto alla copertina iconica di «Dalla», per Chiesa è stata croce e delizia. «Tutto nacque per caso», ricorda. «Seppi dalla radio che Lucio stava registrando a Carimate. Chiamai in studio, me lo passarono e fissammo un appuntamento. Gli feci una serie di scatti», l’ultimo dei quali a distanza di un anno si sarebbe rivelato quello definitivo. «Avevo l’indirizzo di Dalla a Bologna – continua Chiesta – e allora decisi di spedirglielo proponendoglielo come copertina. Poco dopo mi contattò la Rca pronta ad acquistare la foto». Ma l’utilizzo dell’immagine sarebbe andata oltre quanto pattuito inizialmente, «in base al contratto – ricostruisce il fotografo – avevano facoltà di usarla solo per l’album ma ci fecero anche manifesti e così decisi di bloccarli». Da quei fatti fino alla morte del cantautore bolognese sono trascorsi più di trent’anni. «Non ci siamo più né visti, né parlati – racconta Chiesa – e questo un po’ mi dispiace». Perché probabilmente nulla come la copertina di quel disco inquadra visivamente l’artista al suo apice.