Non siamo dylaniani, di più: siamo dylaniati. Siamo di parte, fan sfegatati di Bob Dylan e, proprio per questo, su Bob Dylan e dintorni, abbiamo il dovere della franchezza: il libro «Filosofia della canzone moderna» – il primo scritto in prosa da Sua Bobbità da quando ha vinto il premio Nobel per la Letteratura – senza la firma di Bob Dylan sopra avrebbe incontrato serie difficoltà a trovare un editore. È uscito in tutto il mondo (qui da noi lo pubblica Feltrinelli), ci mancherebbe. È uscito in un’edizione sontuosa, con carta di pregio e un apparato fotografico da far impallidire le ristampe deluxe dei saggi di Umberto Eco ma, al contrario dei saggi di Umberto Eco, la reazione alla «Filosofia della canzone moderna» di uno che qualche libro, prima, lo ha letto è un grande boh.
Tanto per cominciare, il titolo fa abuso del termine filosofia: non è un libro di filosofia, tanto meno un libro di filosofia della musica. Non che avremmo voluto l’approccio di Kierkegaard col «Don Giovanni» di Mozart, per carità, né ci aspettavamo le disquisizioni di Adorno sulla propensione all’ascolto, ma la filosofia è una cosa seria e se la inserisci in un titolo – a meno che tu non voglia essere ironico, cosa che nel caso specifico non sembra – dovresti essere giusto un pelino più organico. Così, detto con affetto.
Dylan mette in fila 66 brani di popular music dei generi più diversi – c’è tanto country, ma anche pezzi swing da crooner e qualche spruzzata di punk – e di solito dedica a ciascuno di essi due paragrafi: il primo sulle suggestioni che il brano in questione susciterebbe nell’ascoltatore (quasi sempre in seconda persona), il secondo con una ricostruzione a geometrie variabili del momento in cui la canzone è stata scritta più qualche aneddoto sull’autore e/o l’interprete. Un elenco che non è in ordine alfabetico, non è in ordine cronologico e, per quello che ci sembra, nemmeno logico, nel quale convivono incredibilmente Frank Sinatra e «London Calling», la leccatissima «If you don’t know me by now» e «My Generation» degli Who. Non ci sono i classiconi di Beatles, Rolling Stones e Jimi Hendrix perché probabilmente sarebbe uscita una cosa troppo «sgamata», così come non ci sono i pezzi dello stesso Dylan perché sicuramente sarebbe stata una roba poco elegante. Ci sono però «Volare» di Domenico Modugno e «Beyond the Sea», la cover che Bobby Darin fece di «La Mer» di Charles Trenet, che sanno tanto di strizzata d’occhio ai pubblici di Italia e Francia, tradizionalmente affezionati al Nostro. La scelta arbitraria delle canzoni ci sta tutta: nessuno si scandalizza.
Ma gli elementi di debolezza sono altrove. Il testo, per esempio, non va a sondare quel meccanismo che porta un determinato brano della popular music a diventare un pezzo di immaginario collettivo, operazione che sarebbe stata interessante. Tantomeno inanella aneddoti personali di Sua Bobbità legati a quelle stesse canzoni, cosa che pure ci sarebbe piaciuta. Dylan resta in superficie con affermazioni un po’ generiche ma parecchio enfatiche («Poche canzoni diventano popolari, ma di quelle che lo diventano sembra proprio che non possiamo fare a meno») e qualche altra valutazione che sa di trollata (perdonateci ma non riusciamo a prendere sul serio l’affermazione secondo cui «Volare» sarebbe stata «una delle prime canzoni allucinogene, di almeno dieci anni in anticipo su “White Rabbit” dei Jefferson Airplane». Voi ve li immaginate Modugno e Migliacci a Haight Ashbury? Fa morir dal ridere, via!).
Questo libro ci sembra confermare la prosa tutt’altro che irresistibile di Dylan: il romanzo «Tarantula» era un esperimento beat, l’autobiografia «Chronicles Vol. 1» fondamentalmente noiosetta, «Filosofia della canzone moderna» non cambia troppo le carte in tavola, anzi. Abbiamo quasi avuto la sensazione che Dylan si sentisse in dovere, dopo il Nobel, di tornare alla prosa. Nobel meritatissimo, di certo non per le sue opere in prosa, ma per quella straordinaria poesia cui in 60 anni di carriera ha saputo dare forma di canzone. A spiegare con la prosa certi meccanismi sono stati decisamente più bravi Mark Fisher e Nick Hornby.