Di cosa parliamo quando parliamo di trap? Ce lo siamo chiesti a lungo e ancora continuiamo a chiedercelo qui a «Money, it’s a gas!» di fronte a misteri senza fine belli come gli exploit dei vari Ghali, Sfera Ebbasta, Dark Polo Gang e Young Signorino. Abbiamo deciso allora di girare la domanda a chi di cultura Hip-Hop e affini ne sa più di noi: Kento, (nella foto di Pierpaolo Lo Giudice), al secolo Francesco Carlo, rapper calabrese trapiantato a Roma con una lunga storia di militanza di sinistra dietro le spalle. Un rapper «vecchia scuola», si direbbe in America. Ci ha risposto con l’intervento che pubblichiamo qui sotto. E vi invitiamo caldamente a leggere.
La trap italiana è come il Movimento 5 Stelle: prima ha incuriosito molta gente, poi è stata ferocemente presa in giro e oggi, infine, ha dato a tutti una forte opinione – molto positiva o estremamente negativa – di sé stessa. Personalmente, il paragone con i grillini si ferma al primo punto: non faccio parte di quelli che «tutto il sound che non sia quello classico dei Novanta fa schifo» né della schiera di colleghi rapper che inseguono le ultime tendenze nel tentativo, più o meno riuscito e più o meno disperato, di raccogliere consensi presso il pubblico dei giovanissimi.
Cosa mi piace della trap (ovvero il beat)
C’è qualcosa di buono nella trap? Certo che sì, e questo buono, per come la vedo io, parte proprio dal suono. Il beat old school in 4/4 costruito sui sample è una base di partenza imprescindibile, di cui non dico certo di disfarci, ma i ritmi terzinati e le atmosfere profonde e rarefatte di certa trap offrono nuove possibilità metriche e di mood a chi sa scrivere. Ecco: chi sa scrivere? Perché mettere bella musica sotto la penna di certi personaggi è come mettere un babbuino alla guida di una Maserati: per un po’ lo seguirai con lo sguardo, meravigliato dalle sue ardite traiettorie al di fuori di ogni logica e legge della fisica, ma alla fine lo sappiamo tutti che andrà a schiantarsi contro il primo muro di mattoni, o il secondo se è proprio fortunato. E il rap italiano – succede con tutti i generi musicali, non fatemi fare nomi! – ha già partorito una sua prima generazione di meteore, che fino a ieri radunavano ragazzine urlanti agli instore e oggi, se va bene, suonano alla sagra dell’acqua lessa o giù di lì.
Attenzione, lo dico ancora più esplicitamente: non tutto quello che c’era negli anni Novanta, la famosa «golden age», era bello, e il babbuino di cui sopra non avrebbe fatto miglior figura accompagnato dal beat più classico di Dj Premier e Dr Dre. Ma la fruizione della musica è cambiata più negli ultimi 15 anni che nei precedenti 150 e ovviamente l’industria non può non tenerne conto. Un esempio per tutti: sono sempre più rari i contratti discografici che comprendano solo l’elemento discografico e i concerti e non anche il merchandising e i diritti d’immagine in generale. Il prodotto è l’artista, non più la musica. Ecco la gara all’estremizzazione del look, dell’attitudine, in un certo senso anche dei testi.
Cosa non mi piace della trap (ovvero lo sciroppo)
Se i rapper (alcuni rapper) di ieri erano accusati di glorificare lo stile di vita criminale e, in certi casi, anche la cocaina, oggi nei testi dei trapper si parla di sciroppo per la tosse alla codeina, un oppiaceo che viene assunto mescolato alle bibite gassate più comuni e che – ovviamente non ne basta una cucchiaiata – ha effetti stupefacenti e conseguenze molto gravi, tanto è vero che negli Stati Uniti ci sono già state delle morti e, qui in Italia, mi è capitato di conoscere personalmente dei ragazzi che sono in comunità appunto per dipendenza dallo sciroppo.
Qui la mia critica è forte. Il paragone, pur estremamente provocatorio, l’ha azzeccato un amico cantautore con cui parlavo qualche giorno fa: se parlassimo di liquori, la cocaina sarebbe un superalcolico. Si sa che è forte e che ti fa male. La codeina sarebbe uno di quei miscugli di finto rum e tonica venduti in bottigliette colorate, con immagine e gusto tarati per il mercato degli adolescenti. Peggiore della cocaina? No, ma più subdola.
Ecco perché, per esempio, secondo me non regge il paragone tra i testi dei trapper sullo sciroppo e quelli dei rocker della vecchia generazione sulle droghe pesanti. Sono diversi i gesti di mettersi una siringa nella vena del braccio e di bere una bibita dolcissima, colorata e perfino semi-legale. Sì, perché queste sostanze si possono tranquillamente comprare con ricetta medica in Italia e addirittura senza ricetta in parecchi Paesi europei. Non è una cosa che hanno inventato i trapper: questo utilizzo degli oppiacei esiste almeno da cinquant’anni, negli ultimi tempi abbiamo assistito solo al discutibile miracolo di vederlo diventare cool e trasgressivo quando storicamente era l’esatto opposto.
Cosa detesto della trap (ovvero il sessismo)
Un altro filo conduttore abbastanza discutibile tra la trap e una parte del rap classico è certo machismo e sessismo ostentato del quale, a 45 anni dalla nascita del movimento Hip-Hop, potremmo forse cominciare a fare serenamente a meno. Uno spunto interessante, per quanto riguarda le nostre parti, viene da Non Una di Meno, una delle realtà femministe più attive, che sta lavorando (anche col supporto del sottoscritto) a un vero e proprio manifesto per l’antisessismo nel rap italiano. Niente voli pindarici né gogne pubbliche, ma uno spunto di discussione sereno ed aperto su una questione che onestamente a questo punto va proprio affrontata. Un esempio? Riconoscere sia il sessismo esplicito – gli insulti nei testi – ma anche quello implicito, il dare per scontato che la donna debba avere un ruolo subalterno o oggettificato.
Se in America il rap torna impegnato
In tutto ciò – e come spesso accade col rap – gli Stati Uniti sembrano essere alcuni passi avanti. Secondo alcuni la trap è già in declino: io non ho gli strumenti per poterlo dire con certezza, visto che ancora macina numeri giganteschi anche da quelle parti. Di sicuro, come tutti, sto vedendo l’enorme successo di «This Is America» di Childish Gambino, traccia intensa e particolare sulla questione razziale negli Usa di oggi che, nel momento in cui scrivo, ha raccolto quasi 140 milioni di visualizzazioni in nemmeno due settimane. E come non citare l’assegnazione del premio Pulitzer a Kendrick Lamar, sicuramente uno dei migliori liricisti dei nostri giorni. Forse ha ragione RZA, l’«abate» del Wu Tang Clan, a dire che questo premio arriva con 25 anni di ritardo, e che andava già assegnato a GZA, il padre spirituale di tutti noi rapper che ci consideriamo appunto dei liricisti. Ma che dire? Se è vero che, per citare Chuck D dei Public Enemy, «l’Hip-Hop è la CNN del ghetto», aspetto di vedere anche in Italia un premio giornalistico a un rapper… nella speranza che qui non ci tocchi aspettare altri 25 anni.
Kento