Qui si parla di Liverpool, dei Beatles e ovviamente soprattutto di noi. Non ho mai creduto nella psicanalisi, fatta eccezione per la frase uscita fuori da un famoso sogno di Carl Gustav Jung del 1927: «Liverpool è la “piscina della vita”, ti fa vivere». Una specie di profezia, se consideriamo che nel 1962 – giusto un anno dopo la morte del pensatore svizzero – uscirà il primo singolo di quei quattro ragazzi là e il mondo non sarà più quello di prima.
Liverpool non è un posto qualsiasi per noi beatlesiani, militanti o meno. Decisamente qualcosa di più della città in cui, alla fine degli anni Cinquanta, partì la parabola dei nostri amati Beatles: una patria d’elezione, una destinazione di eterno ritorno, un luogo dell’anima. Tanti di noi ci vanno e ne tornano entusiasti. Certo, qualcuno di noi ci va e ci rimane male, nel senso di averla troppo sognata e non averla trovata abbastanza all’altezza dei propri sogni nella realtà dei fatti. Anche noi ci siamo stati e, a distanza di poche ore dal rientro, prevale una consapevolezza: comunque uno la voglia mettere, per un beatlesiano è un viaggio eccezionale. A uso e consumo di chi ha in mente di andarci e ancora non lo ha fatto, riuniamo qui un po’ di pensieri sparsi e qualche consiglio pratico, in forma di guida minima.
Cavern Quarter
Partiamo dal posto cui subito va il pensiero quando associamo le parole Beatles e Liverpool: il Cavern, il live club di Methew Street in cui i Nostri nei primi anni Sessanta si presero il centro della scena del Mersey. Il locale originale, lo saprete, fu demolito negli anni Ottanta. Quello attuale è una ricostruzione piuttosto fedele all’originale che negli ultimi 25 anni ha comunque ospitato gig memorabili (una su tutte: il ritorno sul luogo del delitto di Paul McCartney del 1999 con David Gilmour alla chitarra e Ian Paice alla batteria). Atmosfera magica e musica live dalle 10 di mattina in avanti. Siccome per Liverpool c’è un prima e un dopo che i Beatles venissero scovati al Cavern da Brian Epstein, il Cavern di Liverpool si è fatto in tre: oltre al Club a Mathew Street troverete il pub (frequentato soprattutto da gente di Liverpool) e il ristorante (assaggiate lo «scouse», il tradizionale spezzatino di carne da cui gli abitanti di Liverpool prendono il nome di scouser). Di più: l’intero quartiere di Mathew Street è stato recintato e ribattezzato Cavern Quarter, praticamente tutti i locali fanno musica dal vivo che abbia più o meno a che fare con il repertorio beatlesiano.
Mendips e Forthlin Road
Il National Trust ha acquisito, ristrutturato in stile anni Cinquanta/Sessanta, addobbato con cimeli e rese visitabili Mendips e Forthlin Road, ossia rispettivamente le case in cui John Lennon e Paul McCartney trascorsero gli anni della formazione fino all’esplosione della Beatlemania. Puoi visitarle sia all’esterno che all’interno prenotando online sul sito del National Trust: il prezzo è alto, ma vale la pena. I tour guidati per pochi visitatori partono da South Parkway Station e da Speke Hall. Emozionante la ricostruzione della camera da letto di John con tanto di poster di Brigitte Bardot. A casa dei McCartney, nel salotto in cui furono composti pezzi come «Please Please Me» e «She Loves You», ti daranno anche la possibilità di suonare il piano di papà Jim. Ci vuole tanto, troppo coraggio.
Penny Lane e Strawberry Field
I due luoghi che ispirarono il rivoluzionario singolo del 1967 sono tra le tappe beatlesiane più battute in città. Ok, Penny Lane è diversa da allora ma intorno alla rotonda in cui John e Paul cambiavano autobus per andare l’uno a casa dell’altro c’è ancora il negozio del barbiere Tony Slavin con le foto dei Quattro imbavagliati prima del taglio (a proposito: Liverpool è curiosamente una città piena di barbieri, ne trovi per tutte le tasche, aperti persino di notte). Strawberry Field oggi è un tempio dedicato al culto di Lennon: oltre il cancello rosso non c’è più la sinistra struttura originale dell’orfanotrofio, tirata giù negli anni Sessanta, ma un moderno centro visite che ospita cimeli come il pianoforte su cui fu composta «Imagine». Parte dei ricavi dei biglietti d’ingresso e del merchandising va alle opere benefiche dell’Esercito della Salvezza che aveva in carico la struttura originaria.
St. Peter’s Church
È la parrocchia anglicana in cui Zia Mimi portava John da bambino: sull’altare c’è il banco del coro in cui cantava melodie molto diverse da «I’m So Tired». Qui i Quarrymen di John suonarono il 6 luglio 1957, poco prima che avvenisse l’incontro con Paul. Nell’adiacente cimitero è sepolta una certa Eleanor Rigby. Un posto magico, pieno di segni che arrivano dall’Alto: noi per esempio abbiamo fatto l’inaspettato incontro con Derek Dottie, carismatico parish administrator che ci ha aperto le porte della sala da ballo in cui Ivan Vaughan, quel fatidico giorno, presentò Paul a John. C’è appeso un quadro dell’artista americano Eric Cash approvato dal batterista dei Quarrymen Colin Hanton che lo ricostruisce magnificamente (nella foto). Fuori dal sagrato il quartiere di Woolton, nei giorni feriali, brulica di ragazzini in divisa di scuola con l’aria ribelle che avevano i Nostri alla loro età. Provateci voi a trattenere le lacrime, se ci riuscite.
I musei dei Beatles
A Liverpool non c’è un museo sui Beatles. Ce ne sono due: il Liverpool Beatles Museum di Mathew Street e il Beatles Story Museum di Albert’s Dock. Il primo è di proprietà della famiglia di Pete Best, il batterista che precedette Ringo Starr, ed è ricco di cimeli inestimabili, come la chitarra Gallotone Champion regalata a John da Zia Mimi («Con questa però non ti guadagnerai mai da vivere», gli disse) o il pianoforte bianco di «I’m the Walrus». Il secondo è un museo immersivo e interattivo di proprietà della società di trasporto locale del Mersey: i reperti originali non sono tanti (ci sono la prima chitarra di George e l’ultimo piano di John per esempio) ma a livello divulgativo l’esperienza funziona benissimo. E le attività proposte ai bambini lo rendono una tappa imprescindibile di qualsiasi viaggio con famiglia.
Altre cose sparse
Possono meritare una visita anche il Casbah Coffee, locale di periferia sempre di proprietà della famiglia di Pete Best che fu la venue dei primi Beatles (le decorazioni stellari del soffitto furono realizzate proprio dai ragazzi) e oggi è un bed and breakfast, come il Jacaranda, pub del centro che affidò agli studenti d’arte Stuart Sutcliffe e John Lennon la decorazione del bagno delle signore (il murale è ancora visibile). Anche la casa di George Harrison nel quartiere Speke è un B&B, comodo solo se volete soggiornare in zona aeroporto, mentre il pub The Empress farà felici i fan più accaniti di Ringo. Del selfie accanto ai colossi dei Fab Four davanti al Royal Liver Building si può anche fare a meno: la fila è sempre lunga, la photo opportunity sgamatissima. Anche dei tour organizzati con la replica del Magical Mystery Tour Bus (li organizza il Cavern, ndr) si può fare serenamente a meno.
Qualche altra considerazione fatta così, più in generale. La città oggi deve al turismo musicale e calcistico gran parte della propria ricchezza: di notte potrebbe sembrarvi una specie di mega night club all’aperto, di giorno vi apparirà non proprio pulitissima. Non mandate mail di richiesta informazioni ai musei prima di partire: nessuno vi risponderà. Gli abitanti di Liverpool parlano un dialetto incomprensibile, vestono in maniera improponibile ma sono simpatici e ospitali. Se chiedete qual è il miglior posto in cui mangiare in città, molti vi risponderanno Rudy’s che curiosamente… è una pizzeria napoletana che sta dalle parti della chiesa bombardata di St. Luke, aperta da ragazzi saliti da giù. Chissà… magari qualcuno di loro un giorno vorrà diversificare il business, rifletterà sull’appeal internazionale della canzone napoletana e, prendendo spunto da Liverpool, nel centro storico di Napoli aprirà un bel distretto di locali live per gli amanti del genere… «But you know, I know when it’s a dream»