Ragazzi, s’è un po’ inceppata la vendita dei cataloghi musicali. Il sentiment lo suggeriva, una dettagliatissima analisi del Financial Times lo conferma: nel 2023 si sono registrate meno acquisizioni nel diritto d’autore, a livello mondiale, rispetto agli anni precedenti, a quella new wave partita con le operazioni legate ai songbook di Bob Dylan e Bruce Springsteen.
Per dire: nell’ottobre 2021, alcuni dei maggiori gruppi di private equity del mondo – Blackstone, Kkr e Apollo – investirono più di 3 miliardi di dollari nell’acquisto di musica in una sola settimana. Il trend, due anni più tardi, frena. Con l’aumento dei tassi d’interesse, infatti, i prezzi dei cataloghi sono scesi e non hanno più potuto giustificare un ricorso al debito così elevato come accadeva nel 2021.
Quest’anno i songbook hanno avuto un prezzo medio di circa 17 volte il loro reddito annuale storico, rispetto alle 20 volte del 2019, secondo quanto scrive Ft. Nonostante ciò, si continua a investire.
Litmus ha recentemente acquisito il catalogo di Katy Perry per 225 milioni di dollari, dopo che il management della cantante ha respinto le offerte rivali di HarbourView e del fondo Hipgnosis di Blackstone. Separatamente, il mese scorso il ramo creditizio di Morgan Stanley ha impegnato 700 milioni di dollari per acquistare i diritti delle canzoni con la società musicale Kobalt.
Molti investitori considerano ancora il diritto d’autore musicali una fonte di reddito affidabile e non correlata all’economia generale, un asset che dovrebbe cioè mantenere un livello minimo di valore anche in un contesto di tassi d’interesse modificati.
Il problema è che la finanziarizzazione della musica restituisce un quadro molto più sfumato di quanto non sembrasse fino a due anni fa. E la vicenda di Hipgnosis, il fondo londinese che ha contribuito a creare il recente l’hype intorno al mercato musicale, ha l’effetto di suggerire agli investitori o ai potenziali investitori un po’ di sana cautela.