Lo scorso 2 agosto la Commissione Cultura del Senato ha approvato una risoluzione sull’equo compenso agli artisti che prendono parte alla realizzazione delle opere poi distribuite sulle piattaforme di streaming. Il tema è attualissimo e, senza dubbio, complesso. Abbiamo chiesto un commento a Paolo Galli, avvocato parter di Baker McKenzie, grande esperto di diritto d’autore. Ci ha risposto con il testo che segue.
Nel 2012 l’Italia decise di aprire il mercato della gestione collettiva dei diritti connessi alla concorrenza. Con gli anni la liberalizzazione ha interessato anche il diritto d’autore, grazie soprattutto alle scelte del legislatore europeo, e così oggi in Italia si contendono il mercato più di 9 società di gestione collettiva tra diritti d’autore e diritti connessi. Quello descritto è stato un processo però tutt’altro che semplice. Nel 2016 l’Antitrust avviò un procedimento contro Imaie per abuso di posizione dominante poi chiusosi con alcuni impegni dell’ex monopolista e a distanza di un anno, nel 2017, l’Antitrust avviò un nuovo procedimento questa volta contro SIAE chiuso con una sanzione di poco più di 1000 euro nonostante (cito testualmente) le “gravi violazioni accertate” e con la situazione di mercato rimasta inalterata. La liberalizzazione ha poi generato non pochi problemi nei rapporti a valle con gli utilizzatori nazionali, si pensi al lunghissimo contenzioso tra SIAE e Sky, che però sono stati in qualche modo risolti, verrebbe da dire grazie anche ad un po’ di buon senso.
L’ingresso delle nuove piattaforme di streaming e delle piattaforme di condivisione online ha però messo in crisi il sistema liberalizzato italiano. Gli operatori esteri sono abituati a confrontarsi con una pluralità di collecting, ci mancherebbe, ma non con un sistema frammentato come quello italiano. Essi stentano poi a comprendere perché sia necessario pagare più intermediari per il medesimo repertorio e soprattutto non sembrerebbero accettare di buon grado l’idea di corrispondere compensi calcolati secondo logiche talvolta molto diverse da quelle che caratterizzano, pur con qualche variante, le tariffe di tutte le altre collecting estere e degli ex monopolisti nazionali.
Questa situazione ha condotto allo stallo di alcune negoziazioni importanti, sia nel settore del diritto d’autore che in quello dei diritti connessi. Tempo fa LEA ha annunciato di avere avviato un contenzioso contro Amazon apparentemente per le difficoltà di concludere un accordo, Artisti 7607 ha affermato di aver fatto altrettanto con Netflix, le denunce ad AGCOM diventano quasi il pane quotidiano dell’autorità, e nel caso Meta (altro esempio di difficoltà di raggiungere un accordo) l’AGCM si è recentemente eretta paladina del monopolista che qualche anno prima aveva condannato per abuso di posizione dominante. Le tensioni si sono poi accentuate con la trasposizione in Italia della direttiva copyright che ha alimentato aspettative di maggior guadagni che si sono però infrante contro la realtà dei fatti e un mercato in crisi.
Di queste tensioni si è fatta portatrice la Commissione Cultura e Istruzione del Senato, che lo scorso 2 agosto ha pubblicato una risoluzione “in materia di compensi corrisposti agli artisti dalle piattaforme in streaming”. Ma non sono soltanto le piattaforme di streaming al centro del dibattito politico di questi ultimi mesi. Nuove polemiche interessano anche gli utilizzatori nazionali, al momento in particolare RAI, che è accusata di non pagare anche essa i giusti compensi agli artisti musicali. Ma a breve verranno a scadenza contratti con importanti utilizzatori italiani, contratti che risalgono a diversi anni addietro, ed è tutto da vedere come e se verranno rinnovati. E i contenziosi intanto aumentano e aumenteranno ancora di più quando AGCOM diventerà pienamente operativa nella sua funzione di arbitratore dei prezzi. Ma cosa sta succedendo in realtà?
La liberalizzazione ha anzitutto creato una spaccatura di un sistema fino a qualche tempo fa tutto sommato solidale nella base associativa delle collecting. Alcuni autori hanno abbandonato SIAE per confluire in LEA, salvo poi talvolta ritornare in SIAE. Diversi artisti hanno abbandonato Nuovo Imaie per costituire una nuova associazione, Artisti 7607, che li rappresentasse. Alcune etichette indipendenti sono uscite da SCF per confluire in Itsright e poi negli anni in altre associazioni dei fonografici.
Del resto la frammentazione dei repertori è un fenomeno che ha interessato il settore musicale anche su altri piani, quando alcune major hanno deciso di abbandonare i sistemi di gestione collettiva, perché non più adeguatamente rappresentati al loro interno, optando per l’amministrazione individuale dei propri diritti e la concessione di licenze dirette ai principali utilizzatori online. La liberalizzazione ha quindi avuto il pregio di consentire agli aventi diritto (autori, artisti, etichette musicali, etc.) di scegliere la collecting o le collecting che meglio rappresentassero i propri interessi, cosa che probabilmente gli intermediari tradizionali non erano più in grado di fare, o di optare per scelte ancora più radicali come la gestione non intermediata dei propri diritti.
Il mercato dell’intermediazione è però un mercato a due versanti. Non basta raccogliere consensi presso la propria base associativa. Occorre anche rivendere il repertorio che si gestisce, e qui il sistema italiano ha mostrato tutte le sue criticità.
Nel diritto d’autore, al momento operano due sole collecting. Una di esse, SIAE, continua ad applicare tariffe che non tengono conto di quanto uso venga fatto del suo repertorio, nell’ottica tradizionale delle licenze blanket, mentre l’altra collecting, LEA, impiega le medesime logiche tariffarie di SIAE ma applica sconti che tengono conto della propria rappresentatività effettiva. Se quindi, per fare un esempio, l’utilizzatore Alfa diffonde 1000 ore di musica, di cui 900 di SIAE e 100 di LEA, SIAE continua ad applicare tariffe unitarie insensibili all’uso effettivo della musica (è la logica della licenza blanket, come dicevo) mentre LEA parametra le tariffe al valore del proprio repertorio cioè alla percentuale di ore di musica LEA che l’utilizzatore ha trasmesso. Al momento non si hanno evidenze di particolari contestazioni di questo sistema da parte degli utilizzatori, anche se qualche malcontento sembrerebbe esserci e sottendere ad esempio al contenzioso tra Amazon e LEA (reale o solo annunciato che sia).
Nel settore dei diritti connessi, invece, la situazione è molto più critica e sono gli attori a farne le spese. In una recente audizione al Senato, la principale collecting degli attori, Nuovo Imaie, ha dichiarato di avere contratti con tutti gli utilizzatori nazionali e con tutte le piattaforme di streaming. La forza su cui Nuovo Imaie può fare leva, e chi come me conosce Nuovo Imaie non può che convenire, è la trasparenza delle sue tariffe. Oltre ad essere pubblicate, le tariffe di Nuovo Imaie tengono conto del repertorio effettivamente impiegato, nell’ambito di un processo di scambio di informazioni trasparente ed estremamente semplice. Ciò consente agli utilizzatori di avere contezza di quali siano le opere di Nuovo Imaie utilizzate, di quali siano gli attori che abbiano maturato il diritto al compenso e quindi della percentuale di rappresentatività di Nuovo Imaie. Si paga per quello che si usa e si sa cosa si è usato prima di pagare.
Le altre due collecting concorrenti, Artisti 7607 e RASI, hanno invece deciso di seguire un approccio diverso. Per carità, fanno bene. Sono in principio libere di farlo, la liberalizzazione significa infatti e soprattutto che non necessariamente bisogna applicare le tariffe e le logiche dell’ex monopolista. Ma questo approccio ha creato e sta creando problemi molto seri all’intero mercato. Artisti 7607 e RASI, diversamente da Nuovo Imaie, non ritengono di dover comunicare agli utilizzatori quale sia la propria quota di rappresentatività. Esse applicano tariffe forfettarie (ricordano un po’ le blanket license di SIAE) che costringono gli utilizzatori a negoziare alla cieca, senza sapere per cosa si sta pagando, e questa scelta, discutibile o meno che sia – non è questa la sede per effettuare valutazioni – crea inevitabili corti circuiti e frizioni. Artisti 7607 ha inoltre pubblicato solo di recente le proprie tariffe, se tali si possono chiamare, mentre RASI non lo ha mai fatto.
Se ci si pensa bene, al di là del tema della pubblicazione delle tariffe che è una peculiarità solo di questo settore, sul piano del meccanismo tariffario si verifica lo stesso fenomeno di cui ho detto per il diritto d’autore a ruoli invertiti: dove l’ex monopolista applica tariffe che non danno evidenza della rappresentatività mentre il principale concorrente fa l’esatto contrario. È curioso che nel diritto d’autore questa prassi sia apparentemente tollerata mentre nel mercato dei diritti connessi non lo sia. Probabilmente la differenza sta negli interessi e nelle poste in gioco e nella diversa struttura del mercato, che nel diritto d’autore è quasi interamente dominato da SIAE mentre nei diritti connessi vede la presenza di più collecting ben organizzate e capaci di far sentire la propria voce.
Ad ogni modo, tornando a noi, in una audizione recente al Senato, per descrivere questa situazione Netflix ha riportato l’esempio dei costi condominiali che vengono ripartiti tra i singoli condomini in base ai millesimi di comproprietà. Forse l’esempio non è calzante sotto certi aspetti ma lo è sotto altri. Se anche uno solo dei condomini non comunica quale sono i propri millesimi non è possibile (nemmeno per gli altri condomini) ripartire e pagare le spese per il mantenimento della cosa comune. Si badi: con questo non si vuole dire che Artisti 7607 o RASI debbano applicare le stesse tariffe di Nuovo Imaie, come il riferimento alle spese comuni potrebbe suggerire. Il compenso degli attori è tuttavia un compenso che è parametrato al valore del mercato del diritto e questo valore passa anzitutto attraverso la comprensione di quali e quante prestazioni artistiche, sul totale, l’utilizzatore ha fatto impiego. Se non si conosce questo dato, il sistema liberalizzato non funziona e ne fanno le spese tutti, paradossalmente anche Nuovo Imaie e i suoi mandanti, perché le negoziazioni si rallentano fintanto che non ci si sia messi tutti d’accordo su cosa bisogna pagare e a chi (il quanto bisogna pagare è un tema che ciascuna collecting è tendenzialmente libera di decidere). Ecco perché la trasparenza in questo settore è fondamentale.
La risoluzione del Senato dello scorso 2 agosto ignora questi problemi e non essersene fatti carico significa aver perso un’occasione. La proposta del Senato suggerisce di rafforzare l’apparato sanzionatorio – a carico degli utilizzatori – e di prevedere tariffe minime da applicarsi in caso di mancato raggiungimento di un accordo. Le sanzioni non servono tuttavia a nulla se non sono applicate anche alle collecting e oggi la legge non prevede sanzioni a carico delle collecting che non operino in modo trasparente. La fissazione di tariffe minime imposte dall’alto è poi l’esatto contrario di quanto la liberalizzazione suggerirebbe di fare.
Si badi: l’idea di applicare compensi sostanzialmente uniformi a tutti gli artisti non è un’idea di per sé sbagliata. Ma la scelta di liberalizzare il mercato dell’intermediazione collettiva dei diritti, che è ormai una scelta da cui non si può tornare indietro, sottende una volontà diametralmente opposta rispetto all’intervento pubblico nella fissazione dei compensi. Del resto, tariffe minime da applicarsi in mancanza di accordi sono state istituite nel 1975 per i compensi musicali spettanti ai fonografici e agli artisti musicali ma non sono servite a nulla.
Anzi si sono ritorte contro le stesse collecting, facendo da tappo rispetto ai tentativi negoziali di incrementare i compensi rimasti fissi per 40 anni. E alla fine sono state abrogate nel 2015. Perché quindi tornare indietro? La risoluzione del Senato suggerisce poi la creazione di una banca dati unica, con l’indicazione delle opere amministrate dalle diverse collecting e degli attori presenti, come se questa fosse la formula magica per risolvere i problemi della trasparenza nella definizione dei repertori gestiti da ciascuna collecting. La banca dati unica è certamente un passo in avanti ed è molto utile, specie per altri temi, ma non è la sua istituzione che potrà ovviare all’assenza di trasparenza nel mercato.
Ma allora qual è la remunerazione giusta dovuta agli artisti e come ci si arriva? Sia ben chiaro: quando si produce un’opera, gli artisti vengono già remunerati dal produttore. La remunerazione integrativa di cui si parla in questi tempi è una misura aggiuntiva di compenso che – sulla falsariga di quanto accade in altri paesi – gli utilizzatori devono corrispondere per fare sì che gli artisti partecipino anche loro, in misura adeguata e proporzionata, ai ricavi derivanti dallo sfruttamento dell’opera. È un principio del tutto ragionevole ed equo, vigente in Italia dal 1997. La misura di questa compartecipazione andrà negoziata dalle parti interessate e in mancanza di un accordo saranno AGCOM o l’autorità giudiziaria a farsi carico della soluzione della controversia.
Ma già circolano alcuni numeri. Una collecting, in particolare, ha lamentato che sulla base degli accordi conclusi da altri organismi di gestione collettiva con gli utilizzatori online gli artisti dovrebbero vedere la propria opera visualizzata da 830mila utenti per ricevere 1 euro e che, applicando queste stesse logiche, un attore primario che abbia lavorato a 10 opere di grande successo visualizzate, ognuna, da 1 milione di telespettatori riceverebbe un compenso di 33 euro in 5 anni. Sono numeri sorprendenti ma non saprei come la collecting in questione sia arrivata a queste stime.
La logica che sta dietro al malcontento di alcuni soggetti e ai numeri ora visti è però secondo me molto chiara ed è altrettanto interessante: gli artisti vanno remunerati a prescindere dai ricavi degli utilizzatori. Per anni si è sostenuto il contrario, cioè per anni gli artisti hanno battagliato affinché fosse loro riconosciuta una remunerazione proporzionata e adeguata ai ricavi derivanti dallo sfruttamento del proprio lavoro, per colmare il vuoto di valore che nel tempo si era venuto a creare. Ora che le loro rivendicazioni sono state finalmente (e aggiungo io: giustamente) accolte il principio è stato messo da parte e si sfida il sistema. Posso tuttavia dire per esperienza personale che remunerare gli artisti senza guardare ai ricavi di chi usa le loro performance, il puro pay per use, può forse funzionare fintanto che gli attori da remunerare sono pochi ma conduce a effetti dirompenti in tutti gli altri casi. Ho visto per esempio alcune collecting avanzare richieste per i propri mandanti che, se estese coerentemente al cento per cento degli attori, porterebbero il diritto connesso valere intorno ai 700 milioni di euro all’anno per un solo utilizzatore e che se estese a loro volta a tutti gli utilizzatori di opere audiovisive (RAI, Mediaset, Sky, Discovery, Netflix, Amazon, Apple, Disney, Warner, etc.) porterebbero il compenso in esame valere, solo in Italia e solo per gli attori, anche più di 10 miliardi di euro, ogni anno.
Del resto, non dimentichiamoci che i soggetti da remunerare per l’utilizzo di prodotti audiovisivi non sono soltanto gli attori. Vi sono gli autori di queste stesse opere (i registi e gli autori del soggetto e della sceneggiatura) che hanno diritto anche loro ad un compenso adeguato e proporzionato, vi sono poi gli autori delle musiche, gli artisti musicali e i fonografici. Se dovessimo allora applicare le medesime logiche sopra ricordate a tutti gli altri aventi diritto, dovremmo concludere che distribuire audiovisivi in Italia comporti un “costo collecting”, per ciascun utilizzatore, di almeno 3,5 miliardi di euro all’anno. Il fatto è che non credo che nel nostro paese esistano imprese che diffondono audiovisivi con fatturati simili, ammesso che sia equo retrocedere alle collecting la totalità dei fatturati degli utilizzatori. Che qualcosa non funzioni in richieste svincolate dai ricavi mi pare allora abbastanza evidente.
Paolo Galli