Il biopic su Bob Dylan "A Complete Unknown" tralascia totalmente il rapporto dell'artista con la droga

«A Complete Unknown», la recensione dylaniata al film su Bob Dylan (che non si droga mai)

Date retta a un dylaniato: «A Complete Unknown», il biopic sulla vita di Bob Dylan diretto da James Mangold e interpretato da Thimotée Chalamet, è un film molto bello. Un’operazione mainstream, certo, che racconta al grande pubblico i cinque anni che cambiarono la vita dell’unico artista musicale ad aver mai vinto un Nobel per la Letteratura e tutto il mondo a ruota dietro di lui. L’obiettivo era dichiaratamente quello e il film di Mangold lo centra alla perfezione: alla fine della visione il proverbiale Marziano a Roma conoscerà l’avventuroso approdo a New York di Sua Bobbità; l’apprendistato ideale consumato al capezzale di Woody Guthrie e alla corte di Pete Seeger; la sua capacità di estrarre canzoni epocali da non si capisce bene dove; la sua incapacità di affezionarsi in amore; l’eterno equivoco tra vita reale e vita immaginata che lo porterà a confondere, nelle uscite pubbliche, Dylan persona e Dylan personaggio; quell’essere un magnifico interprete della sua epoca eppure sentirsi, in fondo, sempre un po’ estraneo a essa («I’m Not There», come l’altrettanto bello non-biopic su Bob Dylan realizzato nel 2007 da Todd Haynes); quell’instabilità che è sete di cambiamento e lo porterà a tradire la tradizione folk e a sposare la svolta elettrica.

Non compromettono il risultato finale le licenze che «A Complete Unknown» si prende rispetto alla vicenda biografica di Sua Bobbità: Suze Rotolo diventa per esempio Sylvie Russo, un personaggio immaginario molto più importante per il Bob Dylan cinematografico di quanto il personaggio reale lo fu per il Menestrello di Duluth; le contestazioni per la svolta elettrica esplodono al Festival di Newport del 1965, quando nella realtà dei fatti i primi a chiamarlo Giuda furono i fan inglesi nel tour della precedente primavera (recuperate, se potete, il documentario «Don’t look back»  realizzato nel ’67 da D.A. Pennebaker); Alan Lomax diventa un rigido conservatore del mos maiorum folk e Albert Grossman una mezza macchietta, quando in realtà furono due geni. Lo sappiamo: realizzare un film mainstream significa semplificare, quello che conta è la visione d’insieme e, nella visione d’insieme sulla vicenda di Bob Dylan, «A Complete Unknown» non vuole restituirci il vero storico ma un buon vero poetico.

Però. Qualche buco c’è, a nostro avviso, e non è piccolo. Nel film di Mangold, per esempio, manca la capacità di Dylan di «rubare», nel senso di attingere in maniera spesso spregiudicata idee musicali e poetiche dalle cose che ascoltava e da quello che leggeva. Bob/Chalamet, per esempio, concepisce «Blowin’ in the Wind» come un’epifania improvvisa, quando la melodia aveva qualche debito con «No more auction block for me». A cantarci «The House of the Rising Sun» è Joan Baez, senza accenni alle querelle con Dave Van Ronk (qui il film da recuperare è «A proposito di Davis» dei fratelli Coen). Ma soprattutto in «A Complete Unknown» manca del tutto il rapporto del primo Dylan con le droghe: Bob/Chalamet fuma come un turco, sì, ma trattasi di sigarette. Per il resto è un vero «clean cut kid» (cit.), tanto un bravo ragazzo. Anche qui la storia vera fu molto più complicata. Fece molto discutere, per esempio, un’intervista del ’66, rimasta inedita fino al 2011, in cui Sua Bobbità ammise di aver fatto uso di eroina in gioventù. «Dopo il trasloco a New York ho sconfitto una dipendenza dall’eroina da 25 dollari al giorno», raccontava Sua Bobbità. «Per un po’ sono stato molto, molto fatto, ma poi ho smesso». Qualcuno avanzò dubbi sulla veridicità di quelle parole (eggià: sempre lo stesso vizietto di confonderci, confondendo vero e falso), vogliamo propendere per questa tesi? Va bene, ma sappiamo per certo che fu proprio Dylan a iniziare i Beatles alla marijuana, a New York nel ’64. E invece Bob/Chalamet niente: neanche un tiro.

Quando alla buonanima di Sergio Bonelli chiedevano come mai Tex Willer non intrattenesse rapporti con l’altro sesso, lui rispondeva: «Certo che lo fa, ma lontano dagli occhi del lettore, tra un’avventura e l’altra». Forse il Bob Dylan di «A Complete Unknown» funziona allo stesso modo: appena non lo inquadrano, si sballa di brutto.