Parliamo di «Faber Nostrum». Partiamo dal fatto che è una bellissima idea che gli artisti della nouvelle vague cantautorale italiana, più o meno ascrivibili al cosiddetto concetto di indie, si cimentino con il corpus di Fabrizio De André, il più grande poeta italiano della seconda metà del Novecento punto e basta. La scelta di Sony Music di fare uscire il 26 aprile, nel New Music Friday che fa seguito cioè alla festa della Liberazione, un album tributo a Faber che riunisce Artù, Canova, Cimini e lo Stato Sociale, Ex-Otago, Fadi, Gazzelle, La Municipal, The Leading Guy, Motta, Pinguini Tattici Nucleari, Vasco Brondi, Willie Peyote e The Zen Circus ci piace, non c’è che dire. Delizioso il sito web sul quale devi vagare ramingo col cursore e cliccare il mouse qua e là sulla rappresentazione naif di Genova che trovi raffigurata (nella foto) per scoprire chi ha partecipato e cosa esegue. Da adepti del culto, lo ascolteremo con attenzione dall’inizio alla fine quando uscirà, anche se i primi estratti – Colapesce che rifà «La canzone dell’amore perduto» e i Ministri alle prese con «Inverno» – ci sembrano eccessivamente in debito con le precedenti interpretazioni degli stessi pezzi a opera di Franco Battiato. Della serie: perché affollarsi tutti sulle stesse canzoni, quando De André ha inciso qualcosa come 13 album zeppi di capolavori?
Non è su questo, tuttavia, che vogliamo concentrare il nostro sguardo. Ci interessa il titolo scelto per il progetto coordinato da Massimo Bonelli: «Faber Nostrum» non si può sentire. Un titolo in latino maccheronico, per il più colto autore della storia della canzone italiana. «Faber», infatti, è nominativo di un sostantivo singolare maschile: significa «fabbro» e, oltre a essere il nomignolo con cui De André veniva e viene chiamato da amici e appassionati, rende bene l’idea di come Fabrizio lavorasse, «forgiando» parole e musica nel fuoco della sua passione. Umana e insieme politica. L’aggettivo possessivo «nostrum» è invece declinato al nominativo singolare neutro, non concorda cioè con il sostantivo di riferimento. Una «cappellata» che neanche un alunno di quarta ginnasio commetterebbe. Certo, qualcuno di voi dirà: chi ha scelto quel titolo puntava a riprodurre la suggestione dell’espressione «Mare Nostrum», come i romani chiamavano il Mediterraneo, De André è di Genova, Genova è una città di mare e bla bla bla. Peggio mi sento: l’espressione «mare nostrum», nata dopo le guerre puniche, era sovranismo prima del sovranismo, quanto di più distante si possa immaginare dalla sensibilità politica di De André. Meglio, molto meglio, sarebbe stato intitolare l’album «Faber Noster». Come «Pater Noster», il Padre Nostro che è nei cieli. Prima perché, da chi oggi in Italia fa musica con ambizioni autoriali, De André non può essere visto altrimenti che come un padre con gli attributi della divinità. Poi perché De André non ha scritto solo «La canzone dell’amore perduto», ma anche un concept album sull’autore del «Pater Noster».