Vecchia regola del giornalismo: Natale e Pasqua, tempi di racconti edificanti. Che, tradotto per i non addetti ai lavori, significa più o meno: se hai una buona notizia da dare, un messaggio positivo da veicolare, una bella storia da raccontare, non c’è periodo migliore delle festività per farlo. A «Money, it’s a gas!» stavolta non intendiamo sottrarci a questa legge non scritta e allora spazio a un’amabile chiacchierata telefonica che per mezzora ha collegato Milano con Benicia, cittadina di 27mila abitanti della Bay Area di San Francisco. No, ragazzi, in barba ai nostri gusti musicali non c’entrano Grateful Dead e Jefferson Airplane che a quelle latitudini hanno fatto la storia della musica, ma un signore di 61 anni che, in quanto a tecnica chitarristica, se la gioca con chiunque, un messinese di Torino finito negli Stati Uniti per vivere di musica e ritrovatosi nel 2007 eletto chitarrista acustico dell’anno dal magazine «Guitar Player» e, due anni più tardi, in classifica Fimi con «Stammi vicino», pezzo scritto a quattro mani con l’amico Stef Burns portato al successo da un certo Vasco Rossi che ci ha messo sopra un testo. «I giri della vita – sottolinea come se stesse parlando dei giri armonici che usa Al Di Meola – sono parecchio strani. Insegui un sogno, passano gli anni e ti ritrovi a fare cose che non avresti mai immaginato». Il sogno di Peppino comincia a Torino, dove i genitori, insegnanti, si erano trasferiti quando lui era ancora bambino. Sono gli anni Sessanta del boom economico, la motorizzazione d’Italia e l’esplosione del beat. «Avevo dieci anni – racconta – quando, in parrocchia, mio cugino mi mostrò per la prima volta come funzionava una chitarra. I pezzi da imparare a tutti i costi erano i soliti: “Apache” degli Shadows, “Una bambolina che fa no, no, no” dei Quelli, più avanti “Venus” degli Shocking Blue. Mi minore e la e il gioco era fatto». Di lì a poco gli ascolti (e i tentativi di emulazione) di Peppino sarebbero passati per il più complesso Santana di «Samba pa ti» e la Mahavishnu Orchestra di John McLaughlin, fino alla via di Damasco datata 1974, quando un amico torna dagli Stati Uniti e porta un 33 giri della Takoma Records, intitolato semplicemente con i nomi dei tre chitarristi che ci suonavano: «Leo Kottke, Peter Lang, John Fay». Un’escursione funambolica nelle radici folk dell’America: «Fu come – ricorda oggi – se all’improvviso avessi compreso quella che doveva essere la mia strada, quello mi sarebbe piaciuto fare nella vita». I territori musicali che D’Agostino comincia a frequentare sono il country e il bluegrass, in quella direzione viaggiano i complessi in cui si esibisce (tra le formazioni del periodo ci sono appunto i Bluerba, traduzione di bluegrass nella lingua di Dante). «Poi all’inizio degli anni Ottanta – continua – ero al Festival Ponderosa con alcuni amici al concerto di Mike Seeger e conosco un gruppo di ragazzi americani, musicisti anche loro, che mi invitano a fare un giro nel Maine». Occasione colta al volo da Peppino che, nell’82, si toglie lo sfizio di esibirsi per la prima volta dal vivo nella sua patria musicale elettiva: «All’epoca ero vittima di un pregiudizio: credevo che per suonare negli Usa dovessi essere una specie di mostro. Come avrei potuto farlo io che, per giunta, ero un autodidatta? In quel bar della provincia americana capì che non era esattamente così che stavano le cose: quella terra poteva essere la mia terra». Il passo successivo fu la decisione di trasferirsi negli Usa, «con i miei genitori non poco spaventati dalla mia determinazione». Ma nessuno osi opporsi se di mezzo ci si mette l’amore. E Peppino, in America, oltre al coronamento del suo sogno d’amore per la musica trova una ragazza, Donna, oggi moglie e madre di sua figlia. Ma come va la carriera? «Il primo passo – sottolinea – è stato suonare per strada con la custodia aperta al Fisherman’s Wharf di San Francisco. Mi stupì una cosa: prima di ammettermi a suonare come busker mi fecero addirittura un esame per vedere se ero capace. Qua la musica è una cosa seria, pure se metti il cappello a terra». Il secondo passo fu suonare nei locali. E lì ti accorgi che la storia dell’America «field of opportunity» un po’ è vera: «Ad ascoltarmi una sera c’era Gabriel Yacoub dei Malicorne che mi disse: “Uno come te non deve suonare mentre la gente mangia. Questo è il numero del mio agente che sta a New York. Vacci a parlare”». Da allora Peppino ha preso il volo: discografia bella lunga, comprendente capitoli usciti per la Favored Nations di Steve Vai, attività didattica che si snoda attraverso clinic e Dvd, musica per film e anche per videogiochi (in due edizioni di «The Sims» c’è lui!), un tour che non finisce mai, palco diviso con alcuni dei massimi esponenti del genere come Tommy Emmanuel e il suo idolo Leo Kottke. Adesso ha un album in produzione con Corrado Rustici intitolato «For the Beauty of This Wicked World» che uscirà entro fine anno e a breve tornerà da queste parti per il Ferentino Acustica Festival. Al fin della fiera: Peppino è più popolare in America che in patria, ma la cosa neanche lo impensierisce. «So benissimo – rimarca – di non fare musica per il grande pubblico. Ho avuto la sensazione che, solo dopo essermi trasferito quaggiù, la gente ha cominciato a prendermi sul serio. In Italia, con un nome del genere, al massimo mi avrebbero visto pizzaiolo». E allora evviva l’America. Perché, con tutto il rispetto per l’Italia e per i pizzaioli, mani come quelle di Peppino dovrebbero diventare patrimonio Unesco.
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