Si fa presto a dire che un artista vero ai soldi non ci pensa, che chi fa musica ha in mente soltanto la sua musica, che conta quello che esce dall’amplificatore mentre il resto è roba da manager e avvocati di affari: la storia del rock andrebbe riscritta con l’estratto conto delle varie rockstar a portata di mano, perché spesso e volentieri dietro alle scelte artistiche di questo cantante e di quel chitarrista si celano questioni alquanto spicciole. Poi ci sono le eccezioni che confermano la regola e Prince – lo diciamo senza un briciolo di retorica – apparteneva senza dubbio a queste: di soldi in quasi 40 anni di carriera ne ha fatti tanti, ma il problema dei soldi non ce l’ha mai avuto. Anzi: la sensazione è che in più di un’occasione abbia anche «maltrattato» il suo patrimonio, preso la decisione più scomoda, meno furba nell’ottica della difesa dei suoi interessi. Di copie ne ha vendute tante, per carità: se ne contano almeno 100 milioni mettendo insieme l’intera discografia. Ma a bestseller globali, come l’intramontabile «Purple Rain», ha affiancato anche dischi più lenti ad affermarsi, come l’esordio di «For You», o addirittura flop clamorosi come «Graffiti Bridge». Per quel suo essere «di pancia» che spesso e volentieri lo ha portato a strafare, non si è gestito benissimo: come ti salta in testa di far stampare e poi ritirare «The Black Album», quella che avrebbe dovuto imporsi come la tua opera definitiva? Perché tirare la corda con la Warner Bros, subito dopo che ci hai firmato un contratto da 100 milioni di dollari? E poi perché inflazionare la tua discografica di così tante opere – il nostro viaggiava su due, tre dischi l’anno – quando sarebbe più saggio dosare con maestria le uscite, assecondando la risposta di pubblico? Domande vane: la forza di Prince (nella foto Lapresse) stava nell’eccesso, sia che si trattasse di scrivere dei suoi rapporti con l’altro sesso, sia che si trattasse di pubblicare canzoni. Di soldi ne ha fatti tanti ma avrebbe potuto farne molti di più: nella «Celebrity 100» di «Forbes» c’è apparso, per esempio, soltanto nel 2005, con fortune pari a 49,7 milioni di dollari al lordo delle tasse. Ancora oggi viaggiava su cachet da 1,5 milioni di dollari a serata. Per tutto il corso della sua carriera se l’è presa con le case discografiche a giorni alterni, fino a decidere di pubblicare in assoluta autonomia la sua opera, attraverso il web. Web che da strumento democratico di diffusione della cultura, nel suo immaginario, ha finito anch’esso per trasformarsi presto in strumento di schiavizzazione dell’artista: si veda la scelta dell’estate 2015 di restare fuori da Spotify e Apple Music, le maggiori piattaforme di streaming, a vantaggio di Tidal, l’alternativa promossa da Jay Z. Non è noto quanti soldi abbia lasciato da parte, ma è facile immaginare che a breve si scatenerà una battaglia legale tra moglie e sorelle su chi prende cosa. Ci piace pensare che da lassù continuerà a guardare con distacco tutto questo teatrino. Magari impugnano il microfono per cantare «Money don’t matter 2 Night».