Premessa doverosa: siamo vinilmaniaci, apparteniamo a quella tribù di fanatici che trascorrerebbe ogni weekend a scartabellare tra scaffali polverosi di mercatini di provincia a caccia di introvabili prime edizioni di 33 giri importati da Usa e Uk, investendo per giunta fior di quattrini sulla propria insana passione. Però non ci piacciono le semplificazioni e questa sui dischi in vinile che superano lo streaming e «vendono» più di Spotify e YouTube è nella migliore delle ipotesi un fraintendimento, nella peggiore una favoletta, un hype che magari funzionerà da lancio per il Record Store Day, ma non restituisce la complessità di ciò che è oggi l’economia della musica. Partiamo dai numeri: nel 2015 negli Stati Uniti, primo mercato mondiale della musica incisa, la Riaa ha quantificato un giro d’affari per il segmento dei dischi in vinile pari a 416,2 milioni di dollari sul versante album (+32,2%) e a 6,1 milioni di dollari su quello dei singoli. A fronte di un valore complessivo del mercato di 7,02 miliardi di dollari (+0,9%). Qui si parla insomma di una nicchia che esprime appena il 5,9% del business di settore. Anche in Italia, periferia dell’impero discografico mondiale, riscontriamo una marginalità analoga: secondo l’ultimo report Deloitte Fimi anticipato oggi da Andrea Biondi sul Sole 24 Ore, il vinile nel 2015 qui da noi ha espresso un giro d’affari da 6 milioni, appena il 4% di un mercato che si è attestato complessivamente sui 148,3 milioni (in crescita, quest’ultimo, del 21% sull’anno precedente). Da dove nasce l’equivoco? Torniamo per un attimo al quadro americano: la Riaa la scorsa settimana ha reso noto che lo streaming gratuito ha mosso 385,1 milioni, meno insomma di quanto negli Usa hanno generato i vinili (quei benedetti 416,2 milioni). Tutto ciò, però, non si spiega con il fatto che in America c’è più gente che compra Lp e 45 giri di quanti ascoltano la musica gratis su internet, quanto piuttosto con il fatto che lo streaming gratuito paga malissimo. Ricapitolando: sostenere che i vinili superano Spotify e YouTube significa soffermarsi sul solo «dito» di fronte al proverbiale dito che indica la luna. Perché se vogliamo analizzare con onestà intellettuale il quadro del mercato discografico a stelle e strisce, dobbiamo far riferimento a una «torta» in cui le «fette» più sostanziose sono quelle di streaming (34,3%) e digital download (34,0%), mentre le vendite fisiche (prima di tutto cd, poi tutto il resto) rappresentano soltanto il 28,8% del business. E in cui il segmento più promettente, numeri alla mano, sembra essere quello dello streaming a pagamento, con Spotify che ha da poco raggiunto i 30 milioni di abbonati nel mondo, Apple Music che segue a quota 11 milioni, poi Deezer (3,79 milioni), Rhapsody Napster (3,5 milioni) e Tidal che, a un anno dal buyout da parte del rapper Jay Z, ha annunciato ieri di aver toccato quota 3 milioni di subscribers. Tradotto in soldoni: il vinile resta roba per noi vinilmaniaci, innamorati dei mercatini di provincia, dell’odore delle copertine di cartone e del fruscio del microsolco. E di un tempo che, purtroppo per tutti, non tornerà mai più.