Ancora un altro articolo su «Now and then», l’ultima canzone dei Beatles, poi la smettiamo, giuro. Il brano in sé ci è piaciuto, lo sapete. Nel frattempo, il 3 novembre, è uscito anche il video ed è scoppiata una tempesta di polemiche, sui social e non solo. L’utilizzo del machine learning, servito alla realizzazione della traccia, per quanto riguarda il clip di accompagnamento è stato infatti, secondo alcuni, ancora più spregiudicato. Qualcuno ha detto cringe.
Effettivamente abbiamo visto John Lennon e George Harrison tornare in vita ed esibirsi accanto ai «veri» Paul McCartney e Ringo Starr in sala d’incisione. Peggio: qualcuno poco ha gradito che, mentre Macca e Starkey cantavano e suonavano, i cari estinti nel filmato di Peter Jackson si producevano per lo più in «mossettine» che sarebbero state poco rispettose del loro status di trapassati.
Stupefacente che, per episodi del genere, si parli di cringe, in un’epoca in cui abbiamo accettato di buon grado che film ambientati nel secondo dopoguerra abbiano The Jon Spencer Blues Explosion come colonna sonora. Al di là delle polemiche, ci sembra che in chi ha lavorato a «Now and then» abbiano invece prevalso tre valutazioni.
Uno: il sentimento della perdita. Siamo fan devoti di Paul e Ringo e mai come questa volta li abbiamo visti sopraffatti dall’emozione. «Now and then» era una canzone d’amore e, 46 anni dopo la sua composizione, è diventata una canzone sulla morte, sull’elaborazione del lutto propria di quando perdiamo qualcuno che ci è stato caro.
E come tendiamo a ricordare chi se n’è andato anni dopo che se n’è andato? Cosa rimpiangiamo? Cosa ci manca di più dieci anni dopo la dipartita? Quei momenti di trascurabile felicità che potevano essere uno scherzo, un gioco, un sorriso. E così, nel video di Peter Jackson, John e George ridono e scherzano (per lo più in frame ripresi dal promo di «Hello Goodbye» datato 1967, ma nel caso di Harrison anche dalla reunion di Friar Park) agli occhi di Paul e Ringo. Ma i «veri» Paul e Ringo, fateci caso, ci appaiono quasi consumati dal dolore. Siamo noi di fronte a un padre, una madre, una sorella, un fratello che non ci sono più e ci mancano da morire.
Due: Lennon e Harrison non sono persone, ma personaggi. Lo erano da vivi – nei film, nel cartoon di Al Brodax e in «Yellow Submarine» – e lo sono ancora di più da morti. Inutile scandalizzarsi se ritornano in vita in un video, perché chi ha vissuto come loro non muore mai veramente. E non è retorica. I francescani spirituali si scandalizzarono quando Giotto «riportò in vita» San Francesco negli affreschi della Basilica ad Assisi. Col senno di poi, dal punto di vista della storia dell’arte, non possiamo far altro che applaudire l’intuizione dei francescani conventuali che vollero quella Basilica con gli affreschi dentro.
Tre: il sogno è veramente finito. Lennon lo sentiva già nel 1970, in uno dei suoi brani solisti più belli e struggenti di sempre: «The dream is over». Guarda caso, un pezzo che parlava di Dio. Nel 2023 sembrano averne preso pienamente coscienza anche Paul e Ringo: quel fade out finale con i Beatles che scompaiono dopo l’inchino non lascia scampo. È un’operazione speculativia «Now and then»? Certo, non siamo nati ieri: i dischi sono sempre stati incisi per essere venduti (nel 2023 soprattutto per essere riprodotti in streaming, a dire il vero) e ogni anno, prima di Natale, c’è quasi sempre stata un’uscita beatlesiana. Ma di speculazione filosofica dobbiamo parlare, quanto può esserlo meditare sul senso della vita e della morte. Qui i Beatles li abbiamo amati e continuiamo ad amarli, come se li avessimo conosciuti di persona, come se fossero nostri familiari.
E sono ormai quattro giorni che non possiamo fare a meno di mettere su il video e, puntualmente, a ogni visione ci commuoviamo. Perché «Now and then» (singolo casualmente uscito nel giorno dei morti) suona come un testamento, come se Paul e Ringo ci stessero dicendo che anche loro si sentono vicini alla fine o, forse, dovremmo dire alla loro trasfigurazione. Perché «Now and then» è un’opera di teologia speculativa. Mica per caso qualcuno diceva che i Beatles sono la più grande prova dell’esistenza di Dio che abbiamo per le mani.