Cinquant’anni fa l’ultimo live dei Beatles, poi lo stop per dedicarsi alla scrittura. Oggi chi potrebbe permetterselo?

San Francisco, 29 agosto 1966. Il posto era Candlestick Park, lo stadio dei Giants. Il prezzo del biglietto: 4,50 dollari, ossia qualcosa di vicino agli attuali 33 dollari, mettendoci dentro l’inflazione. La scaletta era zeppa di cose che risalivano a un paio di anni prima, ma sembravano distanti anni luce dalle direzioni che stava prendendo la band. La band, già, la band: la più grande di quei tempi e probabilmente di tutti i tempi («Money, it’s a gas!» appartiene al partito di quanti quel probabilmente lo toglierebbero senza esitazioni): i Beatles. Cinquant’anni fa Ringo, John, Paul e George, nello stesso ordine in cui apparivano sul manifesto dell’evento sponsorizzato dall’allora Kya Radio (nella foto), si esibivano per l’ultima volta dal vivo di fronte a un pubblico pagante. In uno stadio, format che loro stessi avevano «inventato» così come lo conosciamo oggi, un anno prima allo Shea Stadium di New York (chi è interessato ad approfondire non si perda per nulla al mondo «Eight Days a Week», il documentario firmato da Ron Howard in uscita il 15 settembre). Com’è possibile che la band più grande di quei tempi decida improvvisamente di lasciare l’attività live, a una manciata di settimane dall’uscita di «Revolver», il disco della maturità? Fanno fede innumerevoli interviste rilasciate dai diretti interessati: era diventato impossibile per i Fab Four esibirsi dal vivo, tra i riti di isteria di massa da parte dei fan, difficoltà tecnica a riprodurre dal vivo il lavoro di ricerca portato avanti in studio, inadeguatezza degli strumenti di amplificazione disponibili in quel preciso momento storico. I concerti non erano più interessanti e allora via: barra dritta verso gli orizzonti della composizione pura, della scrittura per la scrittura, della sperimentazione senza frontiere ché gli anni Sessanta capitano una sola volta nella storia. Un lavoro diverso, forse più intimo, sicuramente più complesso rispetto a suonare e risuonare «Rock and Roll Music» sulle tavole di un palcoscenico. Un lavoro senza il quale non avremmo mai avuto capolavori come «Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band» o «Abbey Road», frutto di tutto quel sano «sbariare» in sala di registrazione. Un lavoro che Lennon e McCartney potevano permettersi perché quelli erano tempi in cui i «soldi» li facevi con i dischi e i concerti erano soltanto una diversificazione del core business. Sono trascorsi 50 anni da allora, 50 anni di rivoluzioni tecnologiche subite prima ancora che interpretate dall’industria della musica, e quaggiù è tutto un altro film: a livello globale la musica «incisa» vale 15 miliardi di dollari (fonte Ifpi), quella suonata dal vivo 20 miliardi di dollari (fonte Billboard). Domanda retorica: chi potrebbe oggi permettersi la stessa scelta compiuta dai Beatles 50 anni fa? Pensiamoci un po’ su. Forse qualcuno che ha messo parecchio «fieno in cascina» prima che il sistema implodesse, ma non ne siamo troppo sicuri. Probabilmente la risposta corretta a questa domanda è: nessuno. Questo è il tempo in cui, se vuoi vivere di musica, lo fai innanzitutto sul palco. I dischi, quando va bene, ti servono a fare repertorio. E pazienza se nessuno ci regalerà più un «White Album».