Lo streaming «non è un male», Spotify e Apple Music «non sono nemici», la digitalizzazione dell’industria dell’intrattenimento è un processo irreversibile («Ormai ci siamo dentro)», nel music business «non ci sono mai stati così tanti soldi come adesso», il problema semmai è che «ci sono le piattaforme online che incassano miliardi, mentre a chi produce contenuti tocca l’equivalente di una pizza». Parola del maestro Jean Michel Jarre, genio della musica elettronica, autore di «Oxygene» (1976) che con più di 18 milioni di copie vendute detiene il record di disco francese di maggior successo di sempre, ma anche presidente della Cisac, confederazione internazionale delle società degli autori e dei compositori, cui aderisce anche la Siae.
È alla Villa Reale di Monza per gli Mtv Digital Days in corso in questi giorni, impegnato nella promozione di «Electronica 1: The Digital Days», atto primo in uscita il 18 ottobre per Sony Music di un ambizioso progetto discografico in due parti che lo ha visto lavorare spalla a spalla («In studio di registrazione, come si faceva una volta») con il gotha dell’elettronica mondiale e non solo, tra artisti che lo hanno influenzato (Pete Townshend degli Who, scelto perché «in “Who’s Next” è stato il primo a usare l’elettronica in ambito rock» e Laurie Anderson, «una dea dell’elettronica»), suo compagni di viaggio negli anni Settanta (i Tangerine Dream) e artisti su cui lui stesso ha esercitato una profonda influenza (l’ex Depeche Mode Vince Clarke, Moby o i Massive Attack). Un album ambizioso che esprime alla perfezione l’idea che Jarre ha dell’elettronica che da un lato «più che un genere musicale vero e proprio è un modo di fare musica», dall’altro è un «discorso tutto europeo che non ha nulla a che fare con gli Stati Uniti», sottolinea citando la sua esperienza accanto a quella dei tedeschi Kraftwerk e Tangerine Dream o dei connazionali Air e Daft Punk, «perché è una sorta di evoluzione della musica classica». Parla di musica ma anche di economia della musica, senza girare troppo intorno alle questioni. A partire dallo streaming: «non è un male in sé. È che dobbiamo organizzargli un’economia intorno. Strumenti come Spotify e Apple Music non sono nostri nemici, eppure c’è una contraddizione: non ci sono mai stati così tanti soldi nel music business e più ingenerale nell’industria dell’intrattenimento ma al tempo stesso non ne sono mai arrivati così pochi a chi produce contenuti. Così non funziona: le cose devono cambiare o non ci sarà più chi produce contenuti». Non manca un riferimento alle clamorose prese di posizione di Taylor Swift dell’estate scorsa, alla sua scelta di uscire da Spotify e al braccio di ferro (vinto) con Apple Music sui ricavi nel periodo di prova gratuita della piattaforma di streaming: «Taylor Swift a sollevato il problema, si è fatta sentire, era nella posizione giusta per farsi ascoltare. La nostra specialità è fare rumore ed è esattamente quello che dobbiamo fare». In ogni caso il punto di vista di Jarre sulla questione è tutt’altro che pessimistico: «Per ora siamo all’inizio di un processo e allora certi meccanismi risultano misteriosi: i passaggi di soldi tra le piattaforme di streaming e le major, per esempio. Queste ultime prendono anticipi cospicui dalle prime e a volte ne posseggono delle azioni. Tutte cose di cui gli autori di contenuti sono all’oscuro ma le cose cambieranno. Senza combatterli: dobbiamo semplicemente metterli tutti intorno a un tavolo». Parla anche di tecnologie digitali e qualità della musica, ambito nel quale ha messo in campo la sua Jarre Technologies: «Un giorno guarderemo all’mp3 come oggi si guarda al 78 giri e al grammofono. È l’inizio di un secolo ed è l’inizio di un percorso. Tutto è migliorabile: dobbiamo partire da questo concetto». La rivoluzione tecnologica, com’era ovvio che fosse, ha aumentato le opportunità di fare musica elettronica («C’è semplicemente più materiale, rispetto al passato. Non per questo mancano le opere di qualità») e i dj spesso e volentieri hanno preso il posto delle rock star. Qualcuno fa arte, certo, ma non sono tutti uguali. Perché «alcuni si limitano a mettere il disco».